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Per una critica fondamentale del liberismo


Introduzione
. Per una critica fondamenta
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Per una critica fondamentale del liberismo.



La lacunosità morale dei partiti di ispirazione marxista.


Che le ragioni delle attuali modalità di condizionamento del vivere sociale non vengano più pubblicamente criticate, non è prova che abbiano smesso di agire; d'altra parte, il fatto che non vengano ribadite, a fronte di un condizionamento sociale sempre più forte, è prova semmai che sono state a tal punto accettate, da non richiedere più ulteriori giustificazioni all'apparato dominante.

Inoltre, il fatto che il condizionamento sia aumentato, e che il potere dell'apparato dominante si sia rafforzato esponenzialmente rispetto a quando le ragioni di tale condizionamento sono state formulate, non è prova che esse abbiano subito un'evoluzione. Diciamo ciò in considerazione del fatto che l'agire sociale condotto e promosso dal capitalismo odierno ci appare ancora come l'applicazione delle leggi della morale utilitarista elaborata definitivamente nel XIX secolo.

L'analisi marxiana ha successivamente ampiamente rilevato le contraddizioni tra i proponimenti di perseguire un bene comune, promulgato dagli utilitaristi, e la massimizzazione del profitto individuale; il presente stato di accumulazione del capitale rientra nei corollari di quell'analisi. Accanto alla critica delle posizioni liberali, tuttavia, né Marx, né il marxismo hanno prodotto un corpo organico di proposizioni morali, per cui nonostante l'imponente critica mossa contro il capitalismo, l'azione sociale e le conseguenti dinamiche economiche hanno continuato a sostenersi su una morale il cui fondamento logico appare ai più tuttora innegabile.

Trattando approfonditamente solo dell'aspetto economico della prassi sociale, lasciando le posizioni morali all'infondatezza di una speranza di dissoluzione del potere in seguito allo stabilirsi della dittatura del proletariato e, attraverso di essa, di un poco definito giusto ordine, il pensiero marxista si è limitato all'ambito delle conseguenze contingenti dell'agire sociale, senza affrontare sistematicamente la riflessione sull'ordine delle cause, ovvero delle sue finalità ultime. In virtù di tale mancanza, le socialdemocrazie europee hanno avuto la meglio sui sindacalismi rivoluzionari facendo del massimalismo storico il proprio criterio d'azione politica, senza mettere in discussione i principi morali del liberalismo e dell'utilitarismo, anzi adottandoli di fatto come unici principi possibili. Ponendosi come unica finalità quella di migliorare il benessere dei lavoratori per poterne raccogliere i consensi, senza opporsi alle cause della scarsità a cui si sono adeguati sin dalla prima rivoluzione industriale, le socialdemocrazie cercano, in una prima fase, di contrattare condizioni di lavoro migliori, facendo dei sindacati organi di potere istituzionale, e in una seconda fase, avviata dalla ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale, di rendere il lavoratore parte attiva del capitalismo, inducendolo all'accumulazione al pari del padrone. In tale proponimento si può riconoscere la radicalizzazione della morale utilitarista, ed è l'inizio della estremizzazione delle sue conseguenze, di cui siamo testimoni in questi tempi.

La parte moralmente più propositiva delle sinistre dell'Europa occidentale, ovvero i partiti comunisti, si sono distinti tra filosovietici, negazionisti rispetto agli orrori del totalitarismo bolscevico e staliniano, e coloro che, come in Italia e in Jugoslavia, si distanziarono dall'Unione Sovietica. Nonostante la disposizione ad affrontare la questione morale in termini necessariamente radicali, pena l'avallo del regime totalitario da un lato o la confluenza nel capitalismo dall'altro, i comunismi italiano e jugoslavo, che si possono dire “progressivi” rispetto alla propria stessa impostazione ideologica, non sono riusciti a porre le basi culturali per rendersi autonomi dal bipolarismo planetario dei due blocchi. A non consentire una tale evoluzione è stata la loro permanenza ideologica all'interno dei paradigmi marxisti, che mancano della fondata posizione morale, necessaria per ridiscutere l'agire sociale liberale in termini positivi. Non disponendo di una posizione morale, si sono adottate proposizioni paradigmatiche mutuate dalla dinamica rivoluzionaria in cui erano emerse, come il rigetto della proprietà privata, o si sono mitizzate e astratte dalla loro concretezza condizioni realizzate all'estero, come il suicidio intellettuale di massa realizzato da Castro a Cuba, o la pianificazione esistenziale del cittadino, adottata in tutto il blocco sovietico.

Particolarmente significativo per quanto la mancanza di un sistema morale fondamentale si sia manifestata, è il caso dell'Italia, in cui nel corso degli anni '70 Il Partito Comunista, o più specificamente la corrente facente capo al segretario Enrico Berlinguer, mise fortemente in discussione il diffuso costume di corruttela clientelare, su cui si basava la preminenza dei poteri finanziari e massonici che insanguinarono il Paese nella lunga stagione delle “stragi di Stato”. Berlinguer non riuscì a promuovere le basi di una cultura autenticamente democratica presso la popolazione, anche per opposizione di parte del suo partito, e la logica opposizionale a cui alludeva la stessa denominazione “comunista” fu a detta di alcuni d'ostacolo alla dimensione nazionale del suo progetto politico1.

L'aver concepito la speranzialità gradualista marxista come unica legge morale da poter opporre all'utilitarismo liberale, si rivelò in quel momento inefficace, e il voler affrontare in Italia la questione morale senza potersi avvalere di un solido e condiviso impianto discorsivo, fu tra le cause del fallimento politico del PCI e dell'emergere dei neosocialisti garantisti. A nulla valse l'evidenza della fragilità del sistema economico internazionale messa in luce dalla crisi petrolifera, il che mostra ancora una volta che le ragioni economiche valgono poco rispetto all'impianto morale dell'agire sociale.

La situazione attuale presenta la sostanziale analogia con quella di allora, di avere di fronte a sé numerose evidenze della fragilità del sistema economico, e di non disporre, come allora, di un sistema morale diverso da quello liberale. Un'ulteriore analogia con quel passato, consiste nell'alta sensibilizzazione dell'opinione pubblica borghese verso le ingiustizie sociali, che la riguardano solo in parte, e verso le conseguenze catastrofiche di una politica economica liberista. Oggi come allora, la borghesia manca di una autonomia morale, cioè di un fondamento filosofico solido per avanzare dialetticamente nella formulazione di un concetto di bene che non sia una riformulazione dell'utilitarismo. La novità di oggi è che il paradigma della crescita continua non appare più sostenibile, in ragione delle evidenze che i cambiamenti ambientali e gli squilibri geopolitici ci offrono. Allora il disporre di un fondamento filosofico valido le avrebbe consentito di uscire dalla cattiva coscienza generata dal sentire, da una parte, determinati valori umani e di operare, dall'altra, nella totale disosservanza degli stessi, assecondando il gioco dell'accumulazione ed alimentando la cattiva coscienza. Oggi le consentirebbe di abbandonare la via dell'autodistruzione, ma ciò, nonostante le dette evidenze, non può avvenire, senza che un'altra via non appaia sull'orizzonte della discussione comunitaria. E un'altra via non appare, da un lato perché manca un'ambito comunicativo adeguato allo sviluppo di una discussione comunitaria, dall'altro perché la borghesia non ha sviluppato un dinamismo intellettuale ulteriore rispetto a quello che le consentì di emergere nel XVIII secolo, e lo stato di arretratezza degli apparati burocratici degli stati occidentali, creazioni borghesi, ne è la prova più evidente.

L'utilità, che si era rivelata l'arma migliore contro il dispotismo assolutista, liberalizzando la possibilità di arricchirsi, ha ridotto la borghesia via via schiava del proprio stesso dispotismo. Per la legge dell'accumulazione, infatti, la possibilità di arricchirsi si è andata inesorabilmente ristringendosi ad un esiguo gruppo oligarchico, producendo nel corso dell'Ottocento una struttura classista in nulla differente da quella dell'Ancienne Regime. Solo liberandosi dei principi liberali che la ancoravano ormai non più volontariamente, ma si può dire irrazionalmente e passivamente all'accumulazione, la borghesia europea del XIX secolo avrebbe potuto diventare quella forza morale che converrebbe al suo essere classe discutoria e luogo del razionale, secondo Hegel e Donoso, e che sempre si era creduto che fosse, contestualmente e in seguito alla Rivoluzione Francese. Oggi quella cattiva coscienza, generata dal compiere l'ingiustizia comunitaria dell'accumulazione (non tollerata nelle società organiche) e dall'acquisire un potere crescente, non riguarda più la classe di potere. Lasciamo da parte la questione, pur importantissima, se borghesia non sia più in grado di patire la cattiva coscienza o se la borghesia sia stata superata come classe di potere da un'altra categoria, perché ciò importa la considerazione di una successione generazionale e di un mutato assetto morale di massa. Basti qui considerare che quella categoria sociale, erede della borghesia industriale, che ancora è in grado di patire la falsa coscienza, è stata limitata nella sua potenza dalla progressiva perdita di rilevanza nell'ambito politico. Gli imprenditori industriali odierni, coloro che ancora si occupano della produzione dei beni, sono subalterni rispetto ai detentori dei grandi capitali.

Disporre di un fondamento discorsivo per affrontare la critica della prassi sociale consentirebbe a quella borghesia oggi decaduta, di unirsi ai gruppi sociali di provenienza proletaria, in nome di un agire comunitario animato da comuni principi. Lo sviluppo di un orizzonte discorsivo di ordine fondamentale, spetta comunque ai cascami della borghesia intellettuale, in quanto ancora a diretto contatto con la burocrazia da una parte, e dall'altra perché tradizionalmente disposti ad affrontare la cattiva coscienza e animati da una passione per il discorso morale, a cui al proletariato non è mai stato concesso di partecipare. La contiguità con l'apparato burocratico è funzionale alla comunicazione con gli organi di potere, necessaria all'attuazione materiale dell'azione sociale animata da nuovi principi morali, mentre i confini sociali con gli individui di eredità proletaria, ora borghesi perché disposti all'accumulazione senza ancora alcun rimorso, e con l'attuale proletariato, sarebbero destinati ad annullarsi dall'attuazione di propositi morali comunitari. Il discorso morale che qui si andrà a sviluppare, rileva infatti l'eguaglianza tra gli individui rispetto alla veridicità dei loro asserti, qualora si trovino in una posizione spirituale non mediata dal linguaggio comunitario degenerato in seguito alla manipolazione da parte della comunicazione di massa. La diffondibilità radicale della discussione del fondamento riposa sul principio dialettico della crescita del fondamento in conseguenza delle sue negazioni, e ogni storia individuale, come emergere del particolare, è negazione dell'universale attuale, e accrescimento del fondamento di tale negazione. L'emergenza delle individualità tramite la diffusione radicale della possibilità discorsiva è superamento attuale del concetto di élite intellettuale, in favore di un decentramento della funzione discorsiva contestuale alla diffusione di uno spazio rappresentativo comunitario.



Centralità della burocrazia nel condizionamento del vivere sociale


In conseguenza dell'incessata, progressiva colonizzazione a danno dei popoli che attualmente o potenzialmente coltivano prospettive esistenziali estranee all'accrescimento dell'impero, essi sono stati sottratti delle proprie risorse materiali, tanto da prospettare come unica dimensione esistenziale possibile quella di lasciare la propria terra e di migrare verso il centro dell'impero. Lo sradicamento è da sempre condizione necessaria all'esercizio del potere imperiale, e i Cartaginesi ci insegnano quanto il senso patriottico possa ispirare un popolo ad una resistenza senza speranza per sottrarsi allo sradicamento. Il flusso migratorio ha composto, presso i territori imperiali centrali, una compagine sociale di commistione culturale di complessità senza precedenti, enormemente superiore a quella prodotta dalla fase di colonizzazione territoriale e politica avvenuta fino al secondo dopoguerra, prima che le colonie europee ottenessero via via l'apparente indipendenza politica. La complessità della società europea prodotta dalla colonizzazione odierna, che non interviene formalmente sugli apparati politici ma ne condiziona l'operato attraverso forniture di armi e corruzione dei funzionari, è determinata da un fattore qualitativo che in particolare differenzia le due fasi di colonizzazione, cioè il fatto che le culture delle nazioni colonizzanti hanno perso il proprio carattere dominante rispetto alle culture delle province acquisite (o eterogovernate). L'impero è diventato, per così dire, in ogni sua regione provincia di se stesso, essendosi dissolto il nucleo portante della sua ragion d'essere, cioè il pensiero legittimante il suo intervento violento sul mondo, ma transustanziandosi nella sua forma discorsivamente più inequivocabile, per quanto contenutisticamente povera in rapporto alla complessità della compagine sociale che amministra, cioè la burocrazia e nel suo dispositivo più potente, cioè l'apparato giuridico.

La burocrazia vive annidata negli uffici polverosi e assolati della provincia senza soffrire alcun malessere morale, portando innocente la forza distruttrice del capitale, senza che alcuno goda del diritto di opporvisi. Il suo discorso è la traduzione operativa della legge universale del profitto, è puro effetto di quella legge e non procede secondo l'espansione – necessaria - di un orizzonte logico, essenza della contraddizione dialettica del fondamento del discorso stesso, e quindi della sua apertura dialogica, nemmeno nell'ambito della più ristretta élite di pensiero. La burocrazia è un discorso eternamente limitato al suo inizio, che non rileva le contraddizioni che esso lascia emergere in quanto discorso, in ciò contraddicendo la propria stessa natura di discorso e rimanendo lettera morta, dall'immensa potenza distruttrice e non recante in sé alcuna traccia di dialettica, ovvero di pensiero atto a rilevare le sue contraddizioni. Il pensiero, nella sua natura essenzialmente critica, avviene esternamente al discorso-non discorso (cioè discorso che rimane, come rilevato, contraddittoriamente insensibile alle contraddizioni rilevate dal pensiero) della burocrazia, mentre ciò che produce le modifiche da apportare alla lettera burocratica è un'opera intellettuale che non porta alcuna traccia di criticità, e che consiste nella conformazione della burocrazia alle mutevoli esigenze del capitale. A consentire tale conformazione non è il potere, che non può seguire legge diversa dall'accumulazione del profitto e non può occuparsi che della individuazione delle condizioni che consentono l'accumulazione. A costituire le condizioni perché la burocrazia, che è la lettera morta della pura operazionalità, svolga la funzione di realizzare la legge del profitto, è il diritto, che giustifica il profitto.

Si distinguono dunque due agenti, entrambi i quali operano per la realizzazione della medesima legge del profitto, e che si differenziano uno per porre la pura esigenza del suo ottemperamento, e uno per giustificare il profitto e adeguare la burocrazia al soddisfacimento della sua esigenza. Tale articolazione del potere risulta simile a quello osservabile nell'assolutismo di Luigi XIV, in cui la nobiltà di corte poneva le condizioni del suo mantenimento, e il Consiglio del re, composto da borghesi e non da nobili, provvedeva alla produzione delle norme legittimanti la riscossione delle risorse necessarie. Il Consiglio non risultava mai visibile, e si perdeva “nello splendore del trono a cui è vicino; tanto potente che nulla gli sfugge, e nello stesso tempo così oscuro che a stento la storia lo nota”2. Un ente strettamente burocratico, che agiva in piena autonomia, i cui atti venivano ratificati dal re senza che vi si apportasse alcuna modifica.

La distanza che attualmente separa il gruppo dirigente degli Stati dell'impero occidentale dalla compagine sociale per come è effettivamente composta, è del tutto simile a quella che separava il Consiglio di Luigi XIV dal popolo francese, e come il Consiglio sottoposto all'unico dovere di mantenere il gruppo di potere, che era allora la nobiltà di corte, ed è oggi l'alta finanza. Simile alla rappresentatività del sovrano di allora è il ruolo puramente rappresentativo e retorico affidato alle istituzioni, mentre l'effettività del Consiglio nella determinazione delle condizioni di vita della popolazione è simile alla potenza dell'apparato burocratico degli Stati moderni.

Come allora, infatti, la materia formale su cui si basa l'azione sociale è costituita dall'apparato burocratico, modificabile attraverso procedure a cui solo il gruppo dirigente, che detiene le nozioni giuridiche, può accedere. E lo fa in osservanza degli interessi del gruppo di potere, il quale non ha altra finalità che rimanere dominante, che non conosce altra legge morale dell'utilitarismo, che continua ad osservare nonostante le macroscopiche evidenze dell'ingiustizia sociale e del danneggiamento ambientale da esso prodotti. Al pari del Consiglio del Re, il gruppo dirigente pensa solo a quali articoli del codice applicare e a quali modificare per avvantaggiare il proprio mandante politico (contiguo al gruppo di potere), mentre le conseguenze del suo operato ricadono sulla popolazione, con cui non ha alcun contatto e della quale non si considerano volontà o bisogni, se non per quanto possano avvantaggiare od ostacolare l'applicazione della legge del profitto.3

Volendo risalire ad un soggetto responsabile di tale situazione, è necessario individuare una volontà, un desiderio a cui segua l'impiego di strumenti per realizzare l'apparato consono all'ottemperamento della legge del profitto. Il gruppo di potere, in quanto impiega il gruppo dirigente per realizzare le condizioni all'ottemperamento della legge del profitto, appare, in virtù di questo impiego, come l'agente primario dell'attuazione della legge. Esso non ha tuttavia alcun bisogno di risorse che gli consentano una realizzazione concreta, come la costruzione dei palazzi e dei giardini fantasmagorici del tempo di Versailles, che valga come prova della propria esistenza. Il potere non necessita di mostrarsi attraverso realizzazioni materiali, e nemmeno gli immensi patrimoni immobiliari recano il nome di chi li possiede, perché si darebbe altrimenti una dichiarazione di responsabilità per l'edificazione degli stessi, e ciò sarebbe di ostacolo alla speculazione, perché lascerebbe spiccare un soggetto tra soggetti di fatto alla pari, non in concorrenza tra di loro. E, come sappiamo, la concorrenza è stata superata, nei piani più alti della finanza, da una solidalità monopolista.

D'altra parte, non è nemmeno il gruppo di potere ad aver stabilito la legge del profitto. Il profitto è la degenerazione ludica dell'accumulo previdenziale, è l'accantonamento di beni e poi di valori, inizialmente motivato dalla possibilità di un raccolto o di scarsa disponibilità di bestiame, divenuto poi presso le tribù semitiche segno di distinzione, ed è successivamente proseguito come gioco in cui impiegare l'esistenza, senza più alcun rapporto con un effettivo o possibile stato di mancanza. La legge del profitto è rimasta la sola a motivare l'intervento violento sul mondo, lasciando oltretutto l'esercizio concreto della violenza nella sua misura maggiore ai conflitti religiosi, in modo che essi dissolvano la coesione di un impero potenzialmente avversario e lascino piede libero alla conquista. Così è stato nella ex Jugoslavia, così in Afganistan, in Iraq. I conflitti religiosi certo che non riguardano l'impero, pacificato al suo interno dalla sostituzione di un unico dio denaro alle diverse interpretazioni della religione imperiale, il cristianesimo, e il potere non corrisponde alla volontà di imporre una legge morale, ma alla semplice prosecuzione dell'adempimento della legge del profitto, in virtù della quale il cristianesimo si è, al suo interno, pacificato. Il potere sfugge alla sua stessa definizione di esercizio di una volontà, e il chiamarlo potere è in realtà il retaggio della sua storia, perché non viene esercitato più sulla base morale della presunzione di giustezza della sua legge contro altre leggi, solo non conosce altre leggi che la sua. Non è un potere che sceglie, dunque non è propriamente un potere, piuttosto la messa in atto di una strategia per proseguire un'accumulazione che non risponde, in sé, ad alcun bisogno, desiderio né volontà, ma solo alla necessità, cioè al non-cessare, della vita come gioco del profitto. Gioco che, per essere condotto, richiede l'occupazione di una posizione dominante, la cui perdita costituirebbe l'interruzione di quel gioco, cioè della vita così concepita. La paura di questa morte, che consegue all'incapacità di adottare modi di vivere altri dalla compulsione del guadagno, è l'unico sentimento che anima il cosiddetto potere, ed è il motivo per cui gli i popoli estranei alla finalità di profitto illimitato dell'impero occidentale (a loro volta potenziali imperi) vengono impoveriti preventivamente. Non solo, ma da tale impoverimento l'impero occidentale ha da guadagnare notevolmente, in ragione dell'abbassamento del costo del lavoro conseguente allo scarso potere contrattuale degli immigrati.

La disciplina dell'agire sociale nelle democrazie rappresentative occidentali viene determinato, in definitiva, nella volontà di un'élite di potere che non ha alcun desiderio, ma solo paura di perdere, con la dissoluzione dell'impero, la propria posizione dominante, che si avvale delle prestazioni intellettuali di un'élite di pensiero che maneggia la materia burocratica (rappresentanti politici e giuristi) senza considerare altro che l'interesse del gruppo dominante.

La legge del profitto, degenerazione del pensiero liberale, procede nella sua applicazione fino alla distruzione del pianeta, in assenza di un pensiero che le opponga principi diversi, e che tale pensiero non sia ancora apparso in una forma sufficientemente organica per porsi come critica decisiva del liberalismo e dei suoi corollari, consegue dal fatto che esso non ha accesso alla struttura attraverso la quale il pensiero dominante (o meglio il suo residuo, la legge del profitto) si esprime. Tale struttura è la burocrazia, il luogo in cui la società pensa se stessa, si descrive e si dispone ad ottenere ciò che vuole. L'accademia, luogo istituzionale del pensiero, è divenuta via via il luogo del pensiero istituzionale, cioè quello su cui si conforma la burocrazia. Ogni pensiero che tenti l'oltrepassamento del dogma della massimizzazione del profitto, in accordo con il quale si produce attualmente la burocrazia “esclusiva”, a cui è vietato l'accesso alla società, viene acquisito dall'accademia (le università, e gli apparati comunicativi attraverso cui si esprimono gli intellettuali) e sublimato in altri significati complessi, di natura retorica, che in ragione della loro complessità, vengono misconosciuti dall'apparato burocratico. Per attuare questa strategia, l'accademia si avvantaggia del contributo di intellettuali autentici, la presenza dei quali, all'interno dell'istituzione, conferisce credibilità agli inautentici, a coloro che allontanano il popolo dal potere, coadiuvando la degenerazione della democrazia.



Il potere come supremazia dell'inerzia.


All'autorità politica è stato affidato il compito di distrarre la popolazione dalle criticità del gioco del profitto, attraverso la spettacolarizzazione di alcuni suoi effetti. La personalità e il pensiero personale di un leader, in questa situazione, non può che disturbare l'inerte funzionamento dell'apparato.

La burocrazia e l'accademia, rispetto alle quali il potere, per distoglierne l'attenzione, mostra spesso insofferenza, sono gli strumenti principali che il gruppo di potere utilizza per mantenere il dominio, e vengono innanzitutto utilizzati per consentire alla società solo le funzioni che consentono al gruppo di potere di rimanere nella sua posizione, ovvero che il dogma dell'accumulazione illimitata rispetto all'attuazione del quale il gruppo di potere si dimostra superiore, venga assunto acriticamente, e che rimanga inerte alle eventuali sollecitazioni concettuali. Che le grandi potenze dell'impero occidentale siano rappresentante da uomini politici palesemente inetti alla loro funzione, per come viene tradizionalmente intesa, come Trump, Bolsonaro o Johnson, è funzionale alla non negazione dei principi liberali primi che postulano il principio utilitarista. E' infatti necessario che non si impongano personalità politiche in grado di far emergere le contraddizioni dell'utilitarismo, morale su cui riposa la apparente necessarietà del gioco del profitto. Inoltre, dato che qualsiasi posizione morale utilitarista apre l'orizzonte discorsivo includente le sue, è ulteriormente “utile” che il (cosiddetto) potere si eserciti nella dimenticanza delle sue (contraddittorie) giustificazioni morali. L'omissione sistematica di qualsiasi posizione morale che giustifichi la legge del profitto comporta l'assenza di critica delle attuali modalità di condizionamento del vivere sociale di cui si diceva all'inizio.

Un apparato istituzionale (burocratico ed accademico) che escluda qualsiasi apporto discorsivo riguardane la morale che lo giustifica, e che rimanga, come nella visione di Kafka, efficiente solo rispetto a casi di complessità media, è ciò di cui un potere amorale si serve per escludere dall'immagine che la società i casi troppo semplici e quelli troppo complessi, ovvero chi vive la socialità in modo aproblematico, senza subire i filtri comportamentali che l'apparato impone, come chi produce un discorso più complesso di quello istituzionale, ovvero critico verso di esso.

Il potere è da sempre pura inerzia, dal momento che, una volta conseguito, viene esercitato con lo scopo primario di continuare ad appartenere a chi l'ha conseguito. Ogni ideologia riconosce un soggetto come agente storico dominante e giustifica la detenzione del potere da parte di esso. Il marxismo affida il potere al proletariato prospettando la dissoluzione dello Stato conseguente alla rinuncia al potere da parte dell'élite proletaria dittatoriale, così come il liberalismo affida il potere al capitalista prospettando la realizzazione del benessere comune conseguente alla ridistribuzione le capitale, cioè alla rinuncia al capitale, e quindi al potere, da parte del capitalista. Considerando la natura autoconservativa del potere, queste posizioni ideologiche sono autocontraddittorie e le morali che ad esse si affiancano rivestono la funzione di legittimarle con posizioni utopiche e speranziali, che giustifichino la prosecuzione dell'esercizio del potere all'interno degli organi costituiti. Nel comunismo, l'idea di avvenire, nominata comunemente “rossa primavera”, è il significante vuoto atto a proiettare in un futuro astorico una condizione di benessere generalizzata e di pace, mentre nel capitalismo l'idea di libertà individuale è prospettata come sogno di dominio stabile, e seduce a tal punto da far dimenticare che un sogno rimane, perché esclusivamente individuale, irrealizzabile su un piano sociale o a livello comunitario. L'ideologia borghese liberale si affretta a dire che il benessere collettivo è raggiungibile attraverso il perseguimento del benessere individuale, ma tale posizione rimane logicamente infondata, permane nella sua fase apofantica senza essere sottoposta a verifica logica. La differenza tra le sue proposizioni morali e le conseguenze esperienziali dell'applicazione dei suoi principi, come l'impoverimento delle popolazioni africane, la desertificazione, e i movimenti migratori indotti da tali condizioni, palesa semmai sul piano empirico una contraddittorietà tra quanto prospettato (il benessere diffuso) e quanto verificabile empiricamente. L'apparato comunicativo di massa invade lo spazio pubblico e privato offrendo un'evidenza diversa dalle conseguenze verificabili e demotivando la verifica, lasciando il cittadino in balia di uno spettacolo di consumo, di soddisfazione, di effetti benefici dell'applicazione del sistema. L'apparato comunicativo di massa lavora giorno e notte per nascondere la contraddizione, e la morale liberale rimane, per quanto infondata, incontraddetta.

Se, a questo punto, si sostituisce la morale liberale con l'ideologia comunista, si ottiene la stessa contraddittorietà tra le posizioni morali (la realizzazione di un bene comunitario) e le sue conseguenze esperienziali, cioè un capitalismo di Stato, lo trapotere dell'élite e un imperialismo di fatto identico a quello dello Stato borghese, cosicché sia un modello che l'altro convergono all'indiscutibilità della legge dell'accumulazione e della massimizzazione del profitto, che esso avvantaggi il privato o il pubblico. Si afferma ciò non solo in considerazione della effettiva condotta colonialista e repressiva (cioè colonialista sul proprio territorio) del regime sovietico fino alla caduta del muro, ma rilevando anche l'autocontraddittorietà del socialismo. Si ravvisa questa in particolare nella posizione di un potere strettamente corporativo che persegua gli interessi della comunità.

Il capitalismo spinge indietro di continuo la contraddizione che il bene di pochi è il bene di molti opponendo alla durezza della contraddizione la speranza di benessere diffuso, e il comunismo nasconde, ripetendo incessantemente i propri principi a loro volta speranziali, la finalità di dominio dello Stato. Condizione comune per mantenere indiscussi gli orizzonti speranziali delle due ideologie è che l'individuo venga privato della propria essenza di portatore del logos, e che non si riconosca il suo essere archetipo di senso, a questo scopo veicolando la vita intellettuale individuale all'interno di circuiti logici posti a priori, ed evitando il confronto categoriale tra segno e realtà, che è il significare a posteriori. Il momento di rilevazione astratta dei risultati della verifica empirica, che qui potremmo dire semplicemente concettualizzazione del reale, è evitata dalla saturazione dell'astratto da parte della massa ideologica, costituita dalla sua narrazione speranziale trascendente.4

L'operazionalità logica abituale, in cui l'individuo necessariamente cade (le Denkengewöhnlichkeiten di cui diceva Marcuse), è un sistema di proposizioni trascendenti, funzionale alla categorizzazione del reale, che si offre alla società simultaneamente. E' questa simultaneità dell'apparire dello “spettacolo” (Deleuze) a ridurre le possibilità retoriche dell'individuo ad un unico impianto discorsivo, che costituisce un insieme limitato di concetti riconosciuti, un ambiente rappresentativo circoscritto, attraverso cui l'individuo può comunicare solo indicando, scegliendo processi di significazione già compiuti. I mezzi per sottrarsi alla “fascinazione” della narrazione ideologica sono di natura astratta, formale e progettuale, e sono da ricercarsi al di fuori dalla narrazione stessa, ciò che risulta molto difficile quando tale narrazione offre soddisfazione a basilari bisogni (la premiazione del merito nel capitalismo e garanzia dei mezzi di sussistenza nel comunismo).

Le due cosiddette “grandi narrazioni” costituiscono due nirvana, ovvero luoghi di pura inerzia in cui attivare la propria funzione di archetipo risulta sconveniente; potremmo dire che comunismo e capitalismo sono, per l'individuo, due sogni, mentre per il potere due modi di applicare la stessa legge totalitaria di annullamento dell'archetipicità individuale. Il primo sogno irretisce l'individuo, raccontando che solo vivendo senza coltivare progetti personali ulteriori al socialismo stesso, si consente la realizzazione automatica di quel benessere e di quella pace comunitaria, mentre il secondo irretisce l'individuo raccontando che solo attraverso le scelte di consumo, adeguatamente all'offerta, si possono conseguire i mezzi di espressione della propria individualità e realizzare il dominio sugli altri. Il primo sogno, d'altra parte, implica l'annullamento completo dell'autodeterminazione e la riduzione dell'individuo alla sua efficienza produttiva e a consumatore acritico. Il secondo implica la riduzione dell'autodeterminazione all'interno di un'insieme ristretto di possibilità di consumo differenziato e di realizzazione di sé all'interno di un percorso di vita organizzato gerarchicamente, la carriera.

Funzioni del semantico e loro compromissioni causate dal suo accrescimento.


L'utilizzo di un insieme limitato di significati, e la condivisione di esso all'interno di una comunità, costituisce di per se la possibilità di comunicare tra soggetti, è l'ambito stesso dell'intersoggettività. Il rappresentare umano, tuttavia, comporta l'aggiunta da parte di ognuno del suo proprio segno, è l'emergere e il cominciare del senso che è essenza particolare di ogni uomo. L'insieme dei segni che “serve” l'intersoggettività, quindi, è sottoposto ad un incremento che comporta l'accrescimento illimitato dello spazio discorsivo. Ciò mette in discussione l'univocità dei significati dei segni, in quanto non sono più termini di un sistema chiuso, e comporta una crescente insignificanza sei segni, e con essa la loro incomprensibilità.

A questa degenerazione del semantico dovuto al suo accrescimento, la tradizione provvede offrendo una narrazione stabile, che descriva la realtà della comunità in cui abita, e così “veicolando” la produttività semantica dell'individuo (suo destino di archetipo) all'interno di telos da essa determinati. La tradizione ha una funzione strumentale rispetto all'espressione dell'individuo, che attraverso di essa può apparire come caso unico. Il suo utilizzo è tuttavia condizionato all'assunzione delle finalità che essa dichiara nel disporre i suoi strumenti.

Le tradizionalità possono consentire l'apporto creativo del singolo o meno, in questo modo si distingueranno le tradizioni integraliste, che non ammettono estensione del proprio patrimonio semantico, e quelle “aperte”, che consentono all'individuo di apparire in una condizione di “libertà”, intesa qui come assenza di vincoli intenzionalmente imposti, cioè di esternare il proprio senso della totalità come se non ci fosse una cultura a cui egli appartiene, che l'ha portato a concepire un mondo particolare e che costituisce la condizione stessa della sua possibilità di significare. “Cultura”, intesa come totalità del sapere di una civiltà, è però un concetto molto più vasto di “tradizione”, poiché comprende anche gli elementi in movimento del sapere, quelli accessori all'esercizio attuale del potere, quelli artefatti e subito smentiti dell'informazione, atti a condizionare un comportamento collettivo specifico come in occasione delle elezioni ecc. La “libertà” di cui si parla non è l'assenza di tutto il sapere che circonda l'individuo, che sia tradizionale o più generalmente culturale, ma l'assenza della percezione di questa totalità come vincolante. L'assenza cioè dell'immagine interiore di un'ulteriorità negata, l'assenza del negativo posto come ulteriorità irraggiungibile dell'intero semantico, e resa tale da un potere che separa lo spazio rappresentativo accessibile (intero semantico attuale) da uno inaccessibile (verità). Il più potente dispositivo che consente di determinare quantificare il pensiero possibile, è farne apparire i risultati come necessariamente parziali, ovvero appartenenti ad una sola parte del pensabile. La filosofia che pone la verità come fatto utopico, e l'esistenza umana come “cammino” verso di essa, intende destinare l'uomo all'impotenza, cioè alla percezione di sé e delle sue possibilità come irreversibilmente limitate. L'interno e l'esterno della totalità semantica, cioè del pensabile e dicibile, viene ricondotto rispettivamente alle categorie di immanente e trascendente, in cui la filosofia colloca i concetti di realtà, di idea, di coscienza, di mondo, in una prospettiva onnicomprensiva di “verità” formale che rimane inaccessibile, impensabile, negata all'uomo (e al filosofo stesso), esistente e tuttavia lontana da qualsiasi sguardo. La passione di impotenza è la condizione di tristezza a cui le posizioni di immanentismo e di trascendenza condannano l'uomo, disponendo il suo pensiero ad autolimitarsi, in virtù di una frontiera dell'essere contro la quale preme un nulla in cui sono destinati a sprofondare i contenuti del pensiero diversi da quelli compresi dall'immanenza. La misura dell'impotenza è infatti misura di non-libertà di pensare, nel momento in cui porre l'ulteriorità del semantico attuale come negato all'uomo, e la verità in quella prospettiva generata dall'immanenza-trascendenza, implica la colloca qualsiasi contenuto del pensiero ulteriore all'attuale intero semantico nella porzione ontologica del negato, cioè nel negativo.

Ci sono modi di pensare che sfuggono a questo divieto e utilizzano la tradizione come sistema semantico per creare un'immagine del trascendente, accedendo all'ulteriorità dell'intero semantico e sottraendole la propria qualità trascendentale che compete il suo essere esterna all'intero.

La magia popolare, ad esempio, è la produzione di formule e amuleti che raccolgono non solo le specificità territoriali, ma vengono aggiornate di continuo alle esigenze per cui vengono utilizzate. Il fattucchiere confeziona metodi nuovi per ogni caso, che viene valutato per la sua qualità specifica, non solo categorizzato rispetto ai modelli che la storia ha prodotto. L'individuo trova, attraverso il linguaggio della magia, il proprio posto particolare in uno spazio di per sé non chiuso, in cui è in grado di riconoscere la propria e l'altrui condizione.

L'aumento dei casi da contemplare, e con essi dei termini da utilizzare, ha sì un effetto dispersivo sulla significatività dei segni del tradizionale, ma a tale dispersine, si oppone, come fattore stabilizzante della qualità significante dei segni in uso, una corrispondenza univoca tra lo spazio rappresentativo collettivo e la composizione della collettività. Ogni segno, infatti, appartenente all'intero semantico, si riferisce ad un luogo preciso della comunità e della sua storia, poiché ogni segno è prodotto di un caso, o di una serie di casi, facenti parte di quella storia. La comunità partecipa dunque di una formazione e di un ampliamento continuo del proprio linguaggio basandosi sui significati attuali, cioè sul processo che li ha formati che è la tradizione non integralista. Essa è veicolo del suo proprio ampliamento, base del discorso che, accrescendosi, trova continuamente nuovo spazio per collocare gli accadimenti, i casi che in essa hanno luogo, rappresentati, detti, dai corpi e dalle azioni dei loro attori. Insomma si mantiene la corrispondenza tra rappresentazione e rappresentante, essendo la rappresentazione una immagine del caso occorso all'individuo, che reca la particolarità, si può dire la qualità di quell'individuo, attraverso la descrizione del suo proprio caso.

Quando in Lucania, fino agli anni 1960, si dotava il neonato di un “abitino”, consistente in un sacchetto di tela da appendere al collo contente amuleti personalizzati, si aggiornava un elemento tradizionale di base, arricchendolo di ciò che si presumeva potesse essere più utile alla sana crescita del piccolo. L' “abitino” accompagnava spesso l'individuo anche da adulto, variando il suo contenuto secondo la circostanza in cui doveva “agire”.5

Attraverso la possibilità di rappresentare il proprio caso, l'individuo sfonda continuamente la frontiera della totalità semantica, aggiungendovi, secondo la significatività vigente, un elemento o una combinazione di elementi precedentemente ad essa estranei. La tradizione non integralista, che ammette l'apertura dell'attuale totalità semantica ad una sua ulteriorità6, non pone barriere al processo di ampliamento della rappresentazione che la comunità ha di se stessa. Tale rappresentazione continua ad essere tradizionale, nella perpetua applicazione delle sue metafore, ma apre contemporaneamente una via evolutiva del linguaggio, associando secondo la logica di quella metaforicità elementi eterogenei a casi diversi. La tradizione “assorbe” la creatività individuale lasciandosi utilizzare come strumento di determinazione della propria volontà contro un negativo che non ha nulla di trascendente, ma che è costituito dal dolore della malattia, dalla morte prematura, dalla calamità naturale, rinnovando così imperterrita la propria narrazione. Quel negativo che la filosofia occidentale ha alienato dalle possibilità discorsive dell'individuo, istituendo un potere che esclusivamente lo possa contemplare come parte della verità, la magia popolare lo nomina, lo affronta e vi oppone le proprie rappresentazione, consentendo all'individuo la libertà di usare un linguaggio di cui non conosce limiti, e che in effetti non ha limiti, perché sempre estensibile al sopraggiungere del nuovo caso.

La corrispondenza tra soggetto (rappresentante) e rappresentazione argina la dispersione del significato del tradizionale finché non si rompono i confini della comunità o finché non vengono ad essa sottratti i propri segni tradizionali. E' allora che l'uomo non trova più né un modo di interpretare il divenire, né un immagine di se stesso, ovvero i modi di concepire l'esterno e l'interno, il soggetto e l'oggetto del proprio esistere, i fondamenti del senso di sé, la propria radice. Lo sradicamento è la perdita dello strumento di rappresentare il reale e se stessi, e sradicare gli altri popoli, attraverso devastazioni, distruzioni dei templi e deportazioni, è dalla nascita della civiltà lo strumento principale di dominio sugli altri, di riduzione degli altri ad oggetto. La società schiavile greca ha maturato, per difendersi dal ricostituirsi della volontà di rappresentare e di rappresentarsi delle popolazioni sottomesse, una tradizionalità il cui principio primo è proprio lo strumento di esclusione della possibile ulteriorità semantica, ovvero l'opposizione tra l'essere e il non essere, creando un luogo del negativo assoluto nel proprio spazio rappresentativo. In altre parole, per resistere alla dispersione dei propri segni, la civiltà del dominio ha agito sulla causa di tale dispersione, impedendo l'aumento del semantico attraverso il dispositivo del nulla.


Gioco dell'essere-non essere, del soggetto-oggetto e del dominio.


Il nulla appare come luogo che si svuota da solo, in cui si può gettare tutto ciò che si vuole (annientare) con la certezza che sprofonderà nell'abisso per non tornare più in superficie. L'essere è sottoposto



Stando così le cose, si potrebbe pensare che per i regimi l'individuo sia solo d'impaccio, e che un mondo interamente meccanizzato e disabitato possa essere funzionale all'accumulazione di beni. Il gioco dell'accumulazione tuttavia non si appaga dell'accumulo di beni materiali dal valore assoluto, giacché il possesso crudo, la condizione di abbondanza costituita dal godimento incondizionato di un bene naturale non consente il gioco del dominio. La soddisfazione della condizione di soggetto maturata dalla civiltà occidentale non si può che realizzare attraverso il dominino sull'oggetto, cioè attraverso l'alienazione della parità originaria tra soggetto e oggetto, comportata dal loro appartenere ad un unico piano ontologico. La rottura di tale orizzonte, costituita dall'affermazione aristotelica che l'essere è solo quando è, e dalla struttura nichilista importata dal divenire come non-essere-più, è la conseguenza sul pensiero filosofico di un rapporto di subordinazione tra un ente, che si chiamerà soggetto, su un'altro, che si chiamerà oggetto, e l'interpretazione di tale rapporto come opposizione dinamica (Platone) e non assoluta (Parmenide) tra essere e non essere. Secondo questa interpretazione il soggetto è, mentre l'oggetto, sottoposto alla violenza operata dal soggetto, può non essere. E ciò a vantaggio del soggetto, che in mancanza di oggetti che possano diventare soggetti violenti, non teme annichilimento. Ma questa è l'interpretazione di un fatto che ne è la causa, e che consiste nell'attività umana del dominio e del costituirsi della civiltà come pluralità contraddittoria di soggetti ciascuno dominante. La filosofia è semmai una via di accesso alle contraddizioni che costituiscono il prefilosofico, in questo caso l'incessato gioco del dominio del soggetto sull'oggetto. Esso richiede anzitutto l'attribuzione da parte del soggetto, di valori relativi, in cui esso si rivela superiore all'oggetto. Tale attribuzione costituisce la prima regola del gioco del dominio, e non può essere stabilita unilateralmente, poiché se a un individuo interessa possedere alberi e nutrirsi di frutti a ed un altro interessa la cacciagione e nutrirsi di carni, i due non sono in competizione, ognuno vivrebbe nell'abbondanza non ludica del godimento e nessuno dei due sarebbe soggetto. Il gioco del dominio, che corrisponde in ambito filosofico al gioco dell'essere e del nulla, è costituito dal volere ciascuno essere soggetto e ridurre l'altro a oggetto; avere ciascuno il posto in prima fila nella contemplazione dell'Uno e potervisi specchiare, ovvero essere, a propria volta, uno. Non due. L'oggetto è il residuo annichilito dell'unità del soggetto. La volontà di essere Uno è la dimensione metafisica della dimenticanza del senso originario dell'essere, cioè che ciò che è non può non essere, e che dunque non possono distinguersi enti definitivi (soggetti) da enti provvisori (oggetti), per cui non può un ente escluderne altri dal cerchio dell'essere, e ciò nemmeno escludendoli dal cerchio dell'apparire.

La ragione d'interesse deve dunque essere condivisa tra gli individui, affinché possano ciascuno sperare di essere soggetto, cioè dominare l'altro, cioè annichilire l'altro, guadagnare il posto d'onore di fronte all'Uno, specchiarvisi indisturbati fino all'insorgenza di un ulteriore altro da sé, salvarsi dal non-essere. Ma questo salvarsi è il non essere il nulla, cioè non essere “non essere”. Stando a questo, l'uomo è già salvo, perché essere nulla, o essere “non esssere” è contraddittorio. La concretezza della possibilità di realizzarsi della contraddizione è costituita dalla distinzione di una determinatezza di soggetto e di oggetto a cui l'individuo vuole sottoporre sé e gli altri, in cui il soggetto sia incondizionatamente e possa esercitare le proprie ulteriori volontà, e l'oggetto sia solo per quel tanto che è utile alla realizzazione delle volontà del soggetto, potendo dunque non essere, e anzi andando incontro ad un sicuro destino di annullamento, esaurita la propria funzione per il soggetto. Così assume significato la volontà di salvezza, che corrisponde al non voler essere nulla, cioè non voler essere l'oggetto (che può, ed anzi è in procinto di diventare nulla), quindi essere soggetto.

La volontà di essere è del tutto ineffettiva, poiché è ciò che è, e non ciò che si vuole che sia. Voler essere implica l'astrazione che consiste nella separazione tra soggetto ed oggetto, che consente di dare significato a quel volere, fornendogli un obiettivo distinto. Perchè la proposizione “Voler essere colui che è e non può non essere” abbia significato, è necessario che essa consista, al pari degli altri significanti, nella steresi, nella distinzione del proprio significato da altri significati, e che quindi si ponga in essere, come significante, ciò che può non essere, e che sicuramente non sarà, ovvero quello che si è detto oggetto. Voler non essere oggetto significa autoescludersi dall'essere dell'Uno, totale ed indivisibile, poiché si vuole non essere qualcosa che in quanto posto ed in quanto non ancora annientato, è. L'essere il soggetto non è l'essere l'Uno, ma è essere condizionato prima alla distinzione, atto strategico di volontà di non essere il nulla, tra soggetto ed oggetto, poi dalla oggettivazione dell'altro, atto tattico del dominio. L'essere del soggetto è essere solo fintanto che l'oggetto rimane oggetto, e tale si può mantenere al più fino al suo annullamento, allorché il soggetto, per riaffermarsi tale come distinto dall'oggetto, dovrà opporsi ad un nuovo oggetto, il quale può a sua volta in ogni momento ridurre il soggetto ad oggetto e quindi a nulla, facendosi così soggetto a sua volta e rivelando la caducità dell'essere del primo soggetto, e analogamente di tutti i soggetti, ivi compreso se medesimo. Il soggetto è tale finché è potente rispetto ad un oggetto, cioè finché può decidere dell'essere e del non essere di un soggetto. In questo senso l'essere soggetto è volontà di potenza.

L'essere soggetto è in definitiva l'eccedenza dell'essere Uomo, eccedenza che consiste nella ineffettiva e caduca volontà di essere, come se si potesse non essere. Il soggetto è dunque essere dell'autocontraddizione che l'essere può non essere, cioè che l'essere, in alcune circostanze, non è. Essere ciò che è si oppone all'essere che non è; perché si sia ciò che è, la possibilità di non essere deve appartenere al altro da sé, ovvero ad un ente che può non essere, ciò che si è chiamato, in opposizione al soggetto, l'oggetto. Senza la supposizione che l'essere non sia, non può avere luogo il rigetto del non essere fuori da sé, e il riconoscere l'altro come luogo in cui questa possibilità si realizza. Voler essere, prerogativa del soggetto, è voler mantenere ferma la contraddizione che l'essere non sia, e con essa lo spettro del non-essere oggettivato, cioè di ciò che non si vuole essere, per cui l'essenza del soggetto è la paura di non essere e la speranza di salvarsi dal non essere.



Il voler essere soggetto riguarda sia a colui che diverrà soggetto che a colui che sarà oggetto. Il motivo per cui un individuo si costituisce poi in soggetto (dominante) e un altro in oggetto (dominato) consiste in questo voler-essere-soggetto, condiviso da individui che, in virtù di questa volontà comune, entrano in competizione. E' volontà di giocare anche da parte di chi perderà la partita, e questa volontà è già volontà di tener ferma la contraddizione che l'essere non sia. L'archetipo della lotta per la sopravvivenza è il precedente prefilosofico della volontà di potenza, in cui l'uccisione dell'altro era necessaria al godimento di un bene disponibile in scarsità. L'autocontraddittorietà del soggetto dominante insorge nel momento in cui sopravvivere non è più condizione sufficiente all'essere, come l'uccisione non è più sufficiente a rimuovere la minaccia di essere annientati, cioè di non essere, e ciò che rivela necessario l'annullamento dell'antagonista, inteso non più come uccisione, che comprometterebbe il futuro di dominio del soggetto, bensì l'allontanamento dalla sua sfera ontologica, ovvero la sua riduzione dell'antagonista ad oggetto.

La distruzione della cultura del popolo dominato o il suo assoggettamento ad una cultura dominante, appartiene alle attuali pratiche di dominio post-coloniale come alle devastanti pratiche di conquista di ogni epoca, e persegue lo scopo di annullare l'essenza di un popolo per l'eternità, cioè di rimuovere non solo le prove del suo essere attuale come popolo, ma anche del suo essere stato, rivolgendosi contro la natura immutabile ed eterna del suo essere. La riduzione dell'altro a oggetto segue una via esponenziale, perché più è grande la colpa di aver esercitato violenza sull'altro più l'altro è motivato a rivalersi, ed è dunque pericoloso in misura crescente. Volendo, infatti, ogni individuo essere soggetto, allora il soggetto è circondato di forze che vogliono il suo annientamento. Anche laddove gli animi sembrano sopiti e la condizione di dominati sembra essere assunta come un destino, giunge inesorabilmente il momento della riscossa, per cui il dominante ha sempre più paura del dominato, ed accresce indefinitamente la propria potenza. Ciò avviene attraverso la costruzione o l'ottenimento di strumenti tecnici, i quali divengono, da mezzo per esercitare la propria potenza che erano, finalità della potenza stessa, in quanto consentono l'esercizio di una potenza maggiore.

La diffusione del voler essere dominante comporta dunque l'inerzia della lotta per il potere, che non può fermarsi, e con essa la stessa natura inerte del potere, a cui è condizionato l'essere del soggetto in quanto soggetto, il quale per sfuggire l'annientamento non può che continuare a volere dominare, cioè a voler potere.



L'occidente ha rimosso la finitezza della natura, sublimandola a ragione di illimitato interesse.

Come si è detto, la contesa per il posto d'onore nella tribuna del grandioso quanto angosciante spettacolo dell'Uno, ovvero per l'acquisizione dell'attributo di soggetto che si specchia nell'Uno assumendone l'esclusività (potere di escludere l'altro), riguarda la pluralità di individui che si distingueranno in seguito alla contesa in soggetti ed oggetti. Ciò tuttavia non avviene nella storia, è semmai una proiezione logica dei fatti costituenti la storia della civiltà, che si realizza in un orizzonte discorsivo di tipo filosofico. Oltre l'archetipo della lotta per la sopravvivenza, in cui il vincitore è semplicemente il sopravvissuto, il bisogno momentaneo di sopravvivere si eleva a bisogno di sopravvivere permanentemente, rimuovendo le possibili cause del proprio soccombere; questa sopravvivenza che si vuole definitiva, viene assicurata sì attraverso un processo storico che prevede l'occupazione della terra, la costruzione o l'acquisizione degli strumenti per trarne tali risorse, e infine l'assoggettamento dei concorrenti o dei possibili concorrenti all'acquisizione e allo sfruttamento di quel territorio. Anche se l'occupazione è avvenuta senza bisogno di assoggettare precedenti occupanti, solo l'assoggettamento dei concorrenti assicura la continuità dello sfruttamento del territorio, per cui solo il soggetto dominante si può salvare dalla scarsità e quindi dalla morte, paura originaria. La definitiva dominazione della morte è assicurata dall'essere il soggetto e dal non-essere l'oggetto, ed ecco riproporsi la dicotomia di cui prima. Considerando tuttavia la successione storica che conduce alla volontà di essere soggetto come volontà di salvezza, si rilevi che scopo originario comune a coloro che saranno poi soggetto ed oggetto è il possesso della terra, o di qualsivoglia risorsa naturale che assicuri la sopravvivenza duratura. La volontà prima di acquisizione, di assoggettamento, è rivolta alla natura, che è oggetto originario, e le pratiche propiziatorie in uso presso le società organiche sono modi di scusarsi verso la natura, cioè di attribuire la causa dell'assoggettamento di essa ad altro da sé, inscrivendo la violenza praticata verso la natura nell'immutabile inerzia del rito, così attribuendola a quell'immutabilità, che non può essere diversa da se stessa e dunque non ha colpa per essere ciò che è.

Questo processo riguarda il rapporto esclusivo che presso le società organiche l'uomo ha con la natura del suo territorio, ed è una dinamica limitata allo sfruttamento delle risorse naturali, alla violenza che l'uomo esercita sul proprio territorio e alla colpa che egli esorcizza attraverso il rito. L'essere soggetto dell'uomo è già minato dal terrore della rivalsa da parte dell'oggetto, e la catastrofe naturale, estrema prevaricazione della natura sull'uomo, viene interpretata come vendetta della natura per la violenza subita. L'entrata in competizione con un altro soggetto, che voglia assoggettare quella stessa porzione di natura, fa sì che essa sia ulteriormente oggettivata, il che comporta un cambiamento non solo quantitativo della propria originaria oggettivazione, in quanto oggettivata due volte, ma anche qualitativo, in quanto diviene oggetto non solo di una violenza, ma anche di una contesa. Da mero oggetto di sfruttamento, la natura diviene oggetto di interesse, ed essendo condiviso da due soggetti, essa costituisce la ragione del loro interesse, da oggetto conteso divenendo ragione condivisa.


La contesa individuo-individuo sostituisce la contesa uomo-natura, poiché la ragione di interesse condivisa è considerata immutabile, e in quanto immutabile svolge la funzione prima attribuita al rito, cioè di trasferire la colpa della violenza al destino. La condivisione della ragione d'interesse come destino giustifica la contesa individuo-individuo come il rito giustifica la contesa individuo-natura, e gli attributi di soggetto e di oggetto, che prima riguardavano l'individuo e la natura, riguardano ora gli individui disposti a contesa. La violenza verso la natura non è più ragione di colpa, perché oltrepassata in ragione di una colpa maggiore, quella verso il dominato. Della natura inoltre si ha sempre meno paura, a mano a mano che le sue leggi vengono scoperte e il suo comportamento soggetto a previsione, mentre il soggetto assoggettato, ridotto ad oggetto di dominio, minaccia continuamente la sua rivalsa, e lo spettro della violenza proletaria, delle rivoluzioni sociali, aleggia sempre sul destino degli accumulatori di capitale. Incute ben maggior timore l'offeso mosso da rancore e senza più nulla da perdere che una natura ammansita. Ricorrendo ad una definizione di paura che Spinoza offre ne “L'etica”:


Quanto poi all'affetto da cui l'uomo è disposto a non volere ciò che si vuole, esso si chiama Timore , il quale quindi non è altro che la Paura in quanto da essa l'uomo è disposto ad evitare con un male minore un male che egli giudica sia per accadere.


La non considerazione del male che la natura può recare all'uomo in ragione del suo agire violento su di essa, non è dimenticanza della vendicatività della natura temuta dalla società organica, successivamente razionalizzata come concatenazione degli effetti che in essa si producono, bensì la subordinazione di quel male al male che può essere procurato dalla rivalsa del dominato.

La violenza sulla natura non è, quindi, imponderata, ma è il risultato della valutazione del male che essa produce in conseguenza della violenza umana, in un modo per cui non è determinabile da quale gesto, da quale particolare violenza la sua reazione sia stata provocata, in confronto alla reazione umana al proprio essere negato. Diversamente dalla natura, infatti, l'assoggettato può parlare, e dire la colpa del soggetto dominante, giustificando la propria reazione.

L'essere nel giusto è il lenitivo della paura di subire una rivalsa alla violenza del proprio gesto, e la giustizia è la principale causa della violenza. Si tratta però di una giustizia limitata al discorso dell'oggetto sulla colpa del soggetto, non di una giustizia che consideri i bisogni di entrambi, e dunque di un diritto che da una parte difende i “deboli” (oggetto), dall'altra lascia incontestato il dominio dei “forti” (soggetto).

Nonostante l'espropriazione delle risorse avvenga in misura crescente, essa non viene nemmeno più interpretata come violenza, in conseguenza di una sostituzione della natura come oggetto su cui l'uomo preistorico (intendendo la storia, storia del dominio dell'uomo sull'uomo) intende esercitare il dominio, con l'altro individuo, l'altro popolo, il concorrente. Essendo tale volontà di dominio, in ragione della paura del dominante verso il dominato, necessariamente crescente, la massa dei beni costituenti la ragione dell'interesse per cui il dominio si esercita, ovvero ciò che sono considerate le risorse, è, nel corso della storia, continuamente aumentata. Allo stesso tempo,, in ragione della sua prevedibilità, dell'indeterminatezza delle cause delle sue reazioni, della sua non partecipazione al “discorso”, il timore della natura è già per cause inerenti essa stessa quasi estinto. A tale diminuzione si aggiunga la ragione spinoziana per cui le sue reazioni sono mali affatto minori rispetto a quelli che può recare al soggetto dominante l'oggetto dominante, essere sensibile, secondo la categorizzazione utilitarista, ma soprattutto essere parlante e in grado di dire la colpa del soggetto.

L'esercizio del dominio comporta dunque la non considerazione della finitezza delle risorse, le quali svolgono solo in piccola parte la propria funzione originaria di recare benessere, mentre prevalentemente costituiscono l'oggetto crescente di interesse, che giustifica la lotta per l'illimitato dominio del soggetto sull'oggetto.


Da questo quadro risulta che soggetto e oggetto sono determinazioni non essenziali dell'individuo, ma qualità che si possono acquisire e perdere, e la ragione d'interesse per cui questa attribuzione avviene è condizione necessaria al conseguimento della qualità di soggetto e di oggetto. Il soggetto è, tra coloro che lottano per acquisire un bene, l'individuo che riesce ad acquisirlo, mentre gli sconfitti diventano oggetti, al pari del bene conteso. Come detto, se ognuno nutrisse interessi diversi, la possessione del bene e il suo godimento costituirebbero la nuda vita nell'abbondanza; non si avrebbe il gioco del dominio, perché nella perfetta abbondanza non si dà subordinazione, e se tutti godono incondizionatamente non si distinguono i soggetti dominanti. Per questo al bene naturale viene attribuito un valore relativo, affinché sia relativamente superiore ad altri beni, e affinché il suo possesso costituisca giustificazione di dominio.

La carenza di quel bene, da cui si origina il suo desiderio, è la mancanza della prova della propria potenza, prova di cui il Padre, che non possedendo in sé potenza di generare, necessita. La potenza paterna, forza che rimane invisibile in assenza dell'evidenza di un suo effetto, si rende evidente tramite il trofeo, elemento naturale sineddoche del bene acquisito, e in virtù di tale trofeo il Padre si fa soggetto dominante, imponendo il potere sugli altri. Si è detto spesso che l'impotenza originaria del Padre è l'archetipo della volontà di potenza da cui deriva il potere e che avvia il processo di civilizzazione, ma non si può considerare questa l'unica causa di costituzione della soggettività dominante, a cui è essenziale lo spostamento dell'oggetto di dominio dalla natura (prevedibile e muta) all'individuo antagonista, pericoloso e vendicativo.

E' tuttavia attraverso la replicazione della situazione archetipica che il dominio si protrae, ed essa si produce attraverso il mantenimento della condizione di scarsità, non solo attraverso la distruzione dei beni in eccedenza, ma attraverso la relativizzazione del valore dei beni stessi, resa possibile dall'accumulazione del capitale. E' essa infatti a rendere possibile tale rivalutazione dei beni, ed è la rivalutazione il principale scopo per cui il capitale viene accumulato.

L'accumulazione è uno strumento che, al pari della negazione del dominato, conferisce al soggetto la sua qualità dominante, attraverso la capacità di ridefinire la qualità interessante delle risorse naturali. Ulteriormente, il soggetto si avvale, per conseguire l'accumulazione, dell'assunto etico utilitarista che ciò che gli reca bene è auspicabile.

Il sogno di Stuart Mill di stabilizzazione del capitale accumulato è rimasto irrealizzato in virtù del principio etico di auspicabilità della ripetizione dell'azione recante il bene del soggetto, e dalla incontestata volontà di essere il soggetto che decide del bene (che corrisponde col proprio).

Il sogno di Marx di dissoluzione dello Stato in ragione del raggiungimento della pacificazione sociale è rimasto irrealizzato in virtù dell'inerzia del potere, per cui chi lo detiene vuole continuare ad esercitarlo, e dalla incontestata volontà di essere il soggetto che lo detiene.

Il sogno di Keynes, per cui l'umanità avrebbe perso interesse nell'economia qualora avesse raggiunto un diffuso benessere, è rimasto irrealizzato in virtù della possibilità di continua rivalutazione delle risorse ad opera del capitale, e dalla volontà di essere il soggetto dominante in ragione della superiorità del proprio capitale accumulato, superiorità da cui consegue la capacità di rivalutare le risorse.


Dalla volontà di mantenere in essere dispositivo di dominio dell'accumulazione, consegue la mancata realizzazione della pacificazione sociale. distinti soggetto e oggetto, che comporta l'esercizio del dominio come. L'etica utilitarista, su cui è fondata l'attuale disciplinazione del vivere sociale, è il fondamento del diritto alla prevaricazione, della riproposizione di una situazione archetipa di scarsità, della sacralizzazione del soggetto e della posizione del dominio come destino.



1Cfr. Ernesto Laclau “La ragione populista”, Anticorpi Laterza 2019. pp 177-178

2Alexis De Tocqueville “L'antico regime e al rivoluzione”, Bur, Milano 1998, p. 73

3“Den Beamten fehlt der Zusammenhang mit der Bevölkerung, für die gewöhnlichen mittleren Processe sind sie gut ausgerüstet, […] gegenüber den ganz einfachen Fällen aber wie auch gegenüber den besonders schwierigen sind oft ratlos, sie haben, weil sie fortwährend Tag und Nacht in ihr Gesetz eingezwängt sind, nicht den richtigen Sinn für menschliche Beziehungen und das entbehren sie in solche Fällen schwer.“ „Ai funzionari manca il contatto con la popolazione; per i processi abituali sono ben attrezzati, al contrario i casi molto semplici, così come quelli particolarmente difficili, rimangono spesso senza soluzione; dal momento che sono continuamente, giorno e notte, costretti nelle loro leggi, non posseggono il senso delle relazioni umane, ed è una grave mancanza in questi casi.” Franz Kafka “Der Process” , Fischer Taschenbuch Verlag, Darmstadt 1994, p. 125, mia la traduzione.

4 La narrazione ideologica si potrà dire trascendente in quanto astratta dal reale, inteso qui come insieme dei rilievi empirici possibili.

5Cfr. Ernesto De Martino “Sud e magia”, cap. 4 “Infanzia e fascinazione”.

6Cfr. Emanuele Severino “Struttura originaria”, cap. 7, par. 10 “Ulteriorità possibile e ulteriorità effettuale del F-immediato”

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