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  • AutorenbildCarmelo Leotta

Autocontraddittorietà del soggetto dominante


Felicità: mondo di mondi.


Se la felicità è la soddisfazione della volontà, e volontà primaria, essenzialmente umana, è quella di sapere, allora la felicità è sapere. E' sullo specchio che Dioniso vede e conosce il mondo, che non è mondo prima di rimandare allo sguardo del dio fanciullo la sua immagine, distorta sì dallo specchio, ma dallo specchio raccolta in un ché di osservabile. Ingannevole sì ma appagante il desiderio imprescindibile di rivolgere il proprio sguardo allo specchio e di vedervi un mondo. Di subire lo splendore delle luci riflesse e in quelle ravvisare l'evidenza di un immagine ad esse preesistente. Lo specchio accoglie lo sguardo e la luce. Non è l'idea a illuminare lo specchio né la luce a farne il rivelatore di un'immagine, ma lo specchio ad accogliere la volontà che ci sia un mondo e a darvi i colori della luce riflessa. La volontà è rappresentazione: due flussi contrari di luce e di immaginazione che producono il mondo.

E allora è felice una società, quando i suoi individui sono liberi di esprimersi. Di volere, cioè, un mondo, e di ottenerlo come propria rappresentazione. Ma gli individui vogliono ciascuno un proprio mondo, e perché uno non sia negazione dell'altro, il mondo va rappresentato fino in fondo, come insieme di mondi. La libertà di espressione è dunque l'innegabilità di ogni mondo, è lasciare che il discorso tra gli uomini si faccia specchio di ognuno all'altro.



L'impotenza dell'uomo nelle “grandi narrazioni”.


Facendo riferimento alla sua concezione filosofica contemporanea, sviluppata sul pensiero di Nietzsche e sull'interpretazione dell'argomento dell'eterno ritorno, la volontà, quando si esercita, è rivolta ad oggetti sempre nuovi, per cui non è possibile rivolere la stessa cosa. Un “già voluto” che si imponesse immutato sarebbe la contraddizione del divenire, evidenza massima e fede indiscutibile dell'Occidente, e sarebbe il risplendere di un dio, nella sua concezione immutabile e imprescindibile.

Il socialismo è la realizzazione di un'eguaglianza tra i cittadini che non ammette sviluppi ulteriori alla sua attuazione. Una volta stabilitosi non può che rimanere identico a sé stesso, poiché non si dà una “maggiore eguaglianza”; essa, una volta stabilita, permane. Nel socialismo, quindi, non si può né desiderare qualcosa per se stessi, perché questo romperebbe la coltre dell'uguaglianza, né un socialismo migliore, poiché non c'è “più uguale” di “uguale”. Esso andrebbe rivoluto uguale a sé stesso, che è contraddizione del divenire.

Ciò che è la verità storica più drammatica, il lato brutale dei regimi socialisti, è che la volontà individuale di realizzare i propri desideri, di esprimere sé come differenza, è stata sistematicamente e violentemente repressa. Se la potenza individuale è possibilità di un volere di tradursi in atto, il socialismo impedisce l'attuarsi del volere con la stessa forza con cui l'individuo desidera, più la violenza repressiva che gli serve per affermare il “più di potere” che esso esercita. Il socialismo genera impotenza nella misura in cui impedisce alla volontà di essere potenza, cioè di potersi tradurre in atto.

Rispetto alla potenza dell'individuo, il capitalismo si pone secondo una direttrice opposta. Esso è anzitutto apertura delle possibilità di realizzazione della sua volontà. Tuttavia, chi non profitti di tali possibilità viene emarginato dalla società, perché il doverne profittare è il principio morale primo della società capitalista. E, attenzione: le possibilità offerte non corrispondono alla volontà; ad esse l'individuo deve adeguare i suoi desideri. Conseguenza ne è che quella che il capitalismo chiama “possibilità”, è in realità un obbligo, e che ogni volontà, che per di più è ristretta all'ambito delle “offerte” di realizzazione, si deve attuare per un obbligo morale comunitario. La volontà (nella sua porzione, ripetiamolo, ristretta alla “possibilità” provveduta dal regime) non può esprimersi come potenza, ma deve tradursi in atto. Il capitalismo genera impotenza nella misura in cui impedisce alla volontà di essere potenza, costringendo l'individuo all'atto. Ogni comportamento non ottemperante a quest'obbligo è giudicato inutile, cioè contrario alla legge morale utilitarista, contravvenire alla quale implica, automaticamente, l'emarginazione dalla compagine sociale, oggi maggioritaria, che vi adegua i propri comportamenti. E l'automatismo sta nella struttura pan-ottica della società: il potere può vedere immediatamente chi non si comporta conformemente alla legge, perché essa impone scelte obbligate.

La felicità è espressione libera, e libertà è facoltà individuale, potere tradurre la potenza in atto, come non tradurla. La libertà è arbitrio umano di lasciare la propria volontà in condizione potenziale, “puramente erotica”, in condizione di desiderio, oppure di realizzarla nella realtà. Socialismo e capitalismo sono impotenza nella misura in cui sono negazione di quell'arbitrio, di quel decidere se e cosa tradurre la potenza in atto. Il primo è impedimento del tradurre in atto, il secondo del rimanere in potenza.

Il socialismo è infatti l'ideologia secondo cui all'individuo va sottratto il potere di trarre la potenza in atto, impedendo l'attuazione di qualsiasi volere individuale e arginandolo alla condizione potenziale. Come ideologia, esso si sottrae a sua volta da un “volere che esso sia” perché, una volta realizzato, non può essere diverso da sé e, come si è detto, il volere è solo volere il nuovo. Il socialismo, una volta che ha preso posto nel mondo, una volta stabilito, e con esso stabilita l'uguaglianza tra gli uomini, non si offre ad essere rivoluto se non per come già è, dal momento che non può darsi un'eguaglianza più eguale di un'eguaglianza precedente. Se un “già voluto” si ripresenta uguale, esso non può essere rivoluto, dunque il socialismo, come ordine immutabile, non può essere voluto che prima della sua attuazione.

Il capitalismo limita il volere alle possibilità che offre e ne obbliga l'attuazione. Da questo punto di vista, è doppia impotenza dell'individuo. Mentre il mondo proposto dal socialismo è fatto di divieti di realizzare le possibilità che l'individuo liberamente può immaginare, quello proposto dal capitalismo è un mondo delle possibilità di per se attrattive per l'immaginazione, e in cui l'immaginazione è indotta a ridursi. Al di fuori di esse è l'inutile, per cui l'immaginazione che le eccede, individuata dai dispositivi di osservazione della società, viene sistematicamente lasciata senza successo. Al metodo punitivo di accumulare la divergenza nei manicomi o nelle carceri, si è sostituita l'indifferenza. Metodo assai più efficace ed economico per il potere, in quanto non richiede un intervento diretto sull'individuo divergente, ma lascia agire contro di esso, o per meglio dire sopra di esso, la legge dell'utilità nella raggiunta dimensione di morale comunitaria. Al di fuori dell'utile, cioè dell'interesse, nulla suscita curiosità, e questo è valido da sempre.



L'interesse come ragione morale


Se l'interesse è nominazione di una condizione di dominio da raggiungere, sulla natura o sugli altri individui, esso richiede che sia oggettivato in un'entità evidente e comunicabile, che sia dunque esprimibile in termini quantitativi. Solo la quantità si può esprimere in un ambito di intersoggettività sufficientemente diffuso da poter costituire criterio di oggettività. Solo la semplicità di un'operazione logica di confronto e di consequenzialità può essere diffusa a livello di massa, propagandisticamente. Il capitalismo è affermazione della legge utilitarista (che diviene necessariamente legge di accumulazione), in forza di una oggettivazione, e quindi quantificazione, dell'interesse individuale: rispetto a questa legge esso è la limitazione dell'utile ad un interesse oggettivo, cioè ad un benessere misurabile.

Perché sia misurabile, il benessere deve oggettivarsi, trasformarsi in una qualità. Quando Marx nel Capitale dice: “non qualunque somma di denaro o di valore è trasformabile in ‘capitale’, che anzi per tale trasformazione è presupposto un minimo determinato di denaro o valore di scambio, in mano al singolo possessore di denaro o di merci”, descrive un processo che riguarda l'oggettivazione in generale. Per realizzarsi, essa necessita di una quantità minima. Ma ciò non risulta, come voleva Hegel, per similitudine con le leggi fenomeniche dei passaggi di stato della materia in funzione di raggiungimenti di quantità minime o massime di temperatura, ma per la natura intersoggettiva del benessere in questione, la cui porzione determinante è la sua riconoscibilità, che ne richiede una quantità minima. La transustanziazione del benessere da sensazione a condizione richiede che esso appaia maggiore di un minimo misurabile, e lo strumento per misurarlo è il denaro. Il denaro è la volontà di misurare un piacere, e così di oggettivarlo in interesse. Per questo nel capitalismo nulla risulta degno di attenzione se non produce la quantità di denaro necessaria a compiere un salto ad una migliore condizione di benessere. Salto che si dirà qualitativo, nella misura in cui si abbandoni l'origine quantitativa dell'interesse e lo si consideri oggetto in sé, cioè espressione indecostruibile di qualità.

Il messaggio pubblicitario contemporaneo si riferisce sempre più ai soldi e sempre meno ai beni, sempre più al mezzo che non al fine. Il benessere come piacere conseguito nel consumo è sempre meno attrattivo, mentre lo è sempre di più la volontà di quantificarlo. Il mezzo attraverso il quale conseguire i beni è, nella società del benessere, più attrattivo dei beni stessi. Per il denaro si deve fare tutto, perché esso stesso è il prodotto di una morale utilitarista che prevede la reiterazione delle azioni che inducono un effetto positivo. Prima che la società fosse la società del benessere (già raggiunto) tale effetto si poteva ancora chiamare benessere, mentre ora è l'interesse (benessere oggettivato), e l'interesse è solo se è monetizzabile. Ciò che prima del benessere occidentale era il bene, inteso come materiale oggetto di un piacere desiderabile, ora è il mezzo per conseguirlo.

Il discorso, che dal conseguimento di beni da un'azione di dominio (caccia e agricoltura) conduce all'oggettivazione del bene in denaro, è la creazione di sempre nuovi scenari speranziali in cui il potere gioca al rimpiattino, alzando continuamente la posta, e relativizzando la piacevolezza dei beni, messi a confronto con una promessa di piacere sempre maggiore. Il denaro è strumento tecnico di liberazione dal dolore, ma se in virtù del progresso medico il dolore fisico diminuisce, il dolore spirituale aumenta, in virtù della crescente distanza tra la volontà e la sua realizzazione. “Perché essere felici, se si può avere di più?”, recita lo spot pubblicitario. Felicità, secondo il capitalismo, è avere. Se felice è chi esprime la propria essenza, e vi si specchia, felicità è ad un tempo essere, nel senso di detenere un'essenza, ed avere lo specchio su cui esprimere ed osservare la propria essenza. L'espressione è essere e avere, ma il capitalismo vuole che essa sia solo l'avere lo specchio, rigettando l'essere dal suo discorso. Potendo solo avere lo specchio, senza essere un immagine che vi si rifletta, ogni specchio è uguale all'altro, perché non rivela e non si distingue per la sua qualità primaria di riflettere. E' facile dunque, per il capitale, proporre immagini precostituite, in cui l'individuo possa specchiarsi con la persuasione di trovarsi di fronte alla propria figura.

Ma è questa persuasione sincera? Non è forse, quella imposta dal capitalismo, una finzione perpetrata dall'individuo stesso per conseguire quella felicità sempre procrastinata e condizionata al possesso degli specchi? Che questi siano superfici opache recanti effigi modello non interessa. L'interesse è l'oggettivazione del bene in quantità misurabili, di specchi. La felicità è sconveniente, è inutile, e nel mondo capitalista (mondo dell'utile) si deve non essere felici; ma il disattendersi di ogni promessa non deve scoraggiare.

Ecco, credo che all'umanità occidente si stia chiedendo un coraggio che ha assunto dimensioni di gran lunga superiori alle aspettative di vedersi liberati da quel dolore spirituale che la continua negazione della felicità accresce di giorno in giorno.



Il bene come giudizio


Secondo il suo corrente utilizzo, il termine “bene” indica sia l'azione che apporta un effetto benefico, sia tale effetto. Per bene si è inteso sia una condizione in cui le cose devono stare, e allora si tratta di uno stato, sia che cosa bisogna fare per raggiungere tale stato, e allora esso consiste in una causa o in un insieme di cause che conducano al detto stato. La distinzione tra bene e male riguarda in genere sia l'effetto che la sua causa. Si dice che è bene istruirsi, ad esempio, perché si considera auspicabile (cioè “é bene”) essere sapienti; se essere sapienti non fosse considerato bene, allora l'istruirsi neppure lo sarebbe; è bene mangiare perché è bene stare in salute, ecc. la bontà di un'azione si è pensata fondata sulla sua utilità rispetto alla realizzazione di un effetto. La valutazione di un azione, dunque, è preceduta dalla valutazione del suo effetto. Metodo che non consente di sapere se un'azione è buona prima del suo svolgimento, dal momento che per essere valutata, ne devono prima essere valutati tutti gli effetti, e quindi essa deve essere compiuta prima che se ne conosca la bontà. Tale contraddittorietà si manifesta nei diversi modi, che sarà dato esporre.

L'efficienza del metodo utilitarista si è indicata nella sua capacità di prevedere che un'azione risultata buona in seguito alla valutazione, operata secondo un principio di interesse, di alcuni dei suoi effetti, sarà buona se ripetuta in condizioni analoghe. La ripetizione di un'azione è il suo svolgersi in un momento successivo alla prima volta, in cui sia il soggetto che l'oggetto dell'azione, sia i suoi effetti sono divenuti altro da se, in quanto ordinati secondo un prima e un dopo, cioè inseriti in un processo storico. L'analogicità delle condizioni è quindi di volta in volta stabilita attribuendo dei valori costanti al soggetto, all'oggetto o all'effetto dell'azione, entità di per se soggette al divenire. Questa arbitrarietà dell'attribuzione di costanti a valori di per se variabili, necessita di essere esercitata da un'élite decisionale particolare, che si è detta nella letteratura filosofica “soggetto storico”, che detenga il diritto di interpretare gli effetti delle azioni secondo una particolare ragione si interesse, che potrebbe supporsi essere quello della comunità, ma che comunque non può differire da quello proprio degli interpreti. La pertinenza della ragione di interesse alla comunità attribuisce sì al giudizio delle azioni, ancorché espresso da una élite, un carattere morale, ma questo non evita, di fatto, la necessaria preminenza dell'interesse proprio del “soggetto storico” nella formulazione del giudizio. Alla morale di interesse in gnerale, e a tutte le morali eudemonistiche, Kant oppone l'argomento secondo cui ogni morale contenutistica è di origine egoistica. In altre parole ogni deontologia, cioè ogni contenuto morale oggettivo, è determinata non da un “soggetto universale”, ovvero dalla collettività, ma dal soggetto particolare per proprio interesse. Per Kant, il principio morale legittimo è da riconoscere nel “volere necessario”, risultante dall'universalità del principio in base al quale si agisce, adempiendo all'imperativo categorico. Universalità di origine intersoggettiva, rilevata attraverso una verifica della bontà degli effetti delle azioni riguardanti la collettività che spetterebbe alla politica. La quale già dal suo nascere si allontana dalla politeia, il luogo nobile del dialogo e del confronto della comunità, e si fa subito attività polemica, svolgentesi in un ambiente retorico costituito da antagonismi, che consente agli “eletti” la possibilità di occupare il luogo della decisione, di affermarsi come soggetti dominanti (Max Weber). La possibilità di esercitare il potere è condizionata all'ottenimento del consenso, da parte del popolo che intende liberamente farsi dominare (Hobbes), dal sovrano giusto. E non certo giusto a priori, come voleva essere il feudatario, ma giusto perché “eletto”. Con l'evolversi dei sistemi di elezione verso l'estensione del suffragio dal XVIII secolo in avanti, assume crescente importanza il “consenso” pubblico (mutuabile in “consenso elettorale”), cioè la convinzione o la credenza che il luogo del potere venga occupato da chi “fa bene”, cioè a chi realizza il principio morale che la comunità tiene per legittimo. Il “volere necessario” kantiano, condizionato di per sé dall'intersoggettiva valutazione dell'universalità dei suoi principi, diventerebbe così il risultato di una complessità sociale, in cui tutte le voci della comunità trovino espressione.

Dal momento che nessuno si lascia dominare da chi non prometta di fare “bene”, per farsi soggetto stabilmente dominante, ottenere un consenso stabile (e occupare il luogo paterno dell'arbitrio del desiderabile e salvarsi dal pericolo di essere dominati), è utile all'”eletto” (in questo caso dal popolo) che il proprio agire appaia in accordo con principi ritenuti universalmente validi, cioè espressi come tali dalle culture che vivono nella comunità. E' utile, inoltre, che detti principi non vengano continuamente sottoposti a valutazione, ma che vengano riconosciuti una volta per tutte. Ciò affinché il potere assuma la natura inerte, immutabile, che soddisfi per se stessa il desiderio di mantenerlo e scongiuri il timore di perderlo.

Di qui l'esigenza di “oggettivare” il bene, mutuandolo da principio intersoggettivo, sempre sottosposto al giudizio morale della collettività, a entità stabile, a corpo solido. I principi così stabilizzati costituiscono il “moralismo”, lontana imitazione del continuo, fibrillante giudizio morale che animava la polis greca. Di fatto un sistema di giudizi derivati dallo scopo di conseguire il bene per sé, generalizzato alla comunità, cioè da una serie di “imperativi ipotetici”, di cui risulterà in seguito la necessaria distruttività.

Sviluppando le relazioni inerenti al metodo utilitarista, che misura il bene di un'azione sulla base della bontà del suo effetto, otteniamo, essendo l'azione A, il suo effetto E ed il bene B, la seguente implicazione, che diremo implicazione I:


I

(A---->E) -------> [(E è B)----->(A è B)]


Cioè: essendo A causa di E, se E è bene allora A è bene.

Si pongano ora le due proposizioni “E è bene” ed “A è bene”, come identità. Sviluppando le relazioni in questo senso si ottiene: (E=B) = (B=E), cioè predicare B di E è predicare E di B, e (A=B) = (B=A). Qui si rivela necessario stabilire che B che è uguale ad E e B che è uguale ad A facciano parte di due momenti, altrimenti sovviene la contraddizione: (B = E) et (B = A), che consiste da un lato nell'affermazione che B è contemporaneamente un'azione e il suo effetto, dall'altro che un'azione e il suo effetto sono la stessa cosa.

Le uguaglianze (B = E) e (B = A), lati destri delle identità concretamente espresse come eguaglianze reciproche (E=B) = (B=E) e (A=B) = (B=A), non possono essere affermate contemporaneamente ma in momenti distinti per la storicità delle esperienze di A e di E (storicità espressa nel lato sinistro dell'implicazione, in cui è chiaro che A si verifica prima di E). La distinzione tra i momenti storici consiste nell'“essere precedente” e nell'“essere seguente” di un momento all'altro. Nell'implicazione I la necessarietà della disposizione storica dei propri termini è immediatamente nota. E' immediatamente noto che E, per essere E (effetto E dell'azione A), deve seguire ad A. L'implicazione I rende tuttavia evidente che l'affermazione “A è B” è condizionata dall'affermazione “E è B”, e dunque che “E è B” deve essere affermato prima di “A è B”. A ed E non possono non appartenere a momenti storici distinti, poiché in assenza della relazione storica dell'essere seguente ad A, E non si realizzerebbe, ed A viene considerato, tra tutte le azioni possibili, solo quell'azione che provoca l'effetto che emerge innegabilmente come Bene. Non si darebbe altrimenti l'implicazione che costituisce il lato destro dell'implicazione I! E=B (implicante A=B) è indiscusso, cioè si ritiene immediatamente noto, e ciò avviene perché l'affermazione E=B si comunica tra esseri sensibili, che in virtù della propria sensibilità dovrebbero riconoscere unanimamente la bontà di E. Questa contraddizione sussiste anche senza considerare la contraddittorietà su base storica dell'implicazione I che si va chiarendo, e basterebbe a vagliare la sua insostenibilità, ma procediamo all'interno dell'eventualità che gli esseri sensibili siano ugualmente sensibili e giudichino ugualmente la bontà di un'effetto.

Riguardo ai momenti corrispondenti alle affermazioni “E è B” e “A è B”, non si dà precedenza necessaria, cioè senza la quale uno o entrambi i momenti non si possano costituire (come era il caso di E, che non sussiste se non seguente ad A), ma la implicazione posta tra “E è B” ed “A è B” è necessaria alla determinazione di B, che è B in quanto è lo stesso B che è di E e di A. In altre parole, il lato destro dell'implicazione I è costituito dalla noesi di B articolata in due momenti in cui avviene la predicazione inerente a B. Si tratta dunque di due momenti semantici, di cui il precedente è quello in cui si dice “B è E”, cioè bene è lo stato causato da A, e il seguente è quello in cui, in considerazione di B per quanto esso è E (cioè per B che si determina in misura della bontà di E), si predica che A è B, cioè che l'azione che causa E in quanto ritenuto bene, è bene. (“A è B” è il giudizio dell'azione, la proposizione etica primaria, cioè la risposta alla domanda “che cosa è bene fare?” ).

Si analizzeranno qui le diverse possibili disposizioni dei momenti in cui si articola l'implicazione I, su una omogenea successione storica, un ordine cioè in cui gli eventi appartengano ad un medesimo piano di concretezza, e per comodità di lettura verranno indicati come segue:


Momento storico 1: svolgimento di A Mst1

Momento storico 2: esperienza di E Mst2

Momento semantico 1: affermazione di “E è B” Mse1

Momento semantico 2: affermazione di “A è B” Mse2


a) Si osservi anzitutto che il momento storico Mst1, in cui si svolge A, non può essere simultaneo del momento semantico Mse1 in cui si dice “E è B”, poiché in Mst1, mentre si svolge A, di E non si dà ancora esperienza. Diversamente, il momento storico Mst2, in cui lo stato E viene esperito, può essere simultaneo del momento semantico Mse2 in cui si dice “A è B”. Ma per dire “A è B” si deve considerare la bontà di E, perché, come detto, “A è B” per quanto “E è B”, e dunque “A è B” deve essere affermato successivamente all'accorgersi che “E è B”. “A è B” si può affermare al limite mentre si esperisce E, ma non si può affermare contemporaneamente l'identità implicata da “A è B” (che include B=A) e l'identità implicata da “E è B” (che include B=E), perché B=A et B=E è contraddittorio. Tra le due identità, tenendo ferma l'intenzione di analizzare la situazione limite in cui Mst2=Mse2, è “E è B” non può essere affermata, essendo dati i momenti Mst2 ed Mse2. Posta la loro simultaneità, decade la sussistenza di un momento intermedio tra Mst2 e Mse2, e Mse1 non ha occasione di realizzarsi. La successione storica ottenuta sviluppando la simultaneità dell'esperienza di E (Mst2) e dell'affermazione “A è B” (Mse2),

Mst1, Mst2=Mse1=Mse2


A cui consegue la contraddizione “B=E et B=A”.


b) Si consideri ancora la successione storica omogenea: Mst1, Mst2, Mse1, Mse2.

Mst2 e Mse2 sono distinti, cioè “A è B” viene detto successivamente all'esperienza di E, consentendo che l'affermazione “E è B” avvenga in un tempo storico intermedio e distinto.

In questo modo si affermerà “E è B” e successivamente “A è B”, e ciò basterebbe a risolvere la contraddizione rilavata in a). Avremmo in questo caso un B', appartenente al momento Mse1, in cui si giudica lo stato E (E=B'), e un B'' appartenente al momento Mse1, in cui si giudica l'azione A (A=B''), e in cui B' sia dimenticato, e non uguagli B'' pur chiamandosi ancora “bene”. I giudizi risultano in questo modo in sé incontraddittori, poiché formulati ciascuno rispetto ad un'evidenza che si manifesta contestualmente al loro affermarsi, ma restano tra loro irrelati. A non è più B perché E è B, ma A è B solo in quanto A, indipendentemente dai suoi effetti.

Il giudizio di un'azione indipendentemente dai suoi effetti dovrebbe avvenire o in assenza di effetti, cioè senza che ci sia occasione, ovvero tempo, di manifestarsi di effetto alcuno, e dunque il giudizio sarà formulato contemporaneamente allo svolgersi dell'azione, o non considerando i suoi effetti. Dovrebbe darsi, in questo caso, o un pensiero che pensi l'azione durante il suo svolgersi, e che la giudichi prima che se ne abbiamo gli effetti, o un pensiero che, in seguito all'azione, consideri il passato in cui si è svolta l'azione ed escluda il presente in cui si manifestano i suoi effetti.

Nel primo caso, la serie storica si profila come segue:


Mst1=Mse2, Mst2, (Mse1)


La simultaneità dello svolgersi di A con il suo giudizio, cioè la uguaglianza dei momenti storici estremi della serie storica omogenea, lascia che il giudizio di E=B'' possa non avere luogo, oppure che B' e B'' restino irrelati, poiché il giudizio E=B'' non è implicato da A=B', e in Mse1 B' è dimenticato.

Nel secondo caso, la serie storica si profila come segue:


Mst1, Mst2, Mse2, (Mse1)


La precedenza di Mse2 a Mse1 si è indicata come esclusione del presente dell'evidenza e dell'esperienza di E, ma si può intendere tale esclusione come un togliersi del soggetto dal presente, come se il pensiero stesse naturalmente nel presente e una “forza” esterna ad esso lo elevasse su un piano astratto. Si assume cioè che il pensiero pensi prima le evidenze del presente e successivamente si astragga alla progettualità del discorso. A questo punto dell'analisi questa “forza” appare come la volontà di giudicare un'azione in sé, a prescindere dai suoi effetti, guardando ad un passato in cui si svolga l'azione e in cui “Azione” significhi solo il suo svolgersi privato delle sue evidenze, ovvero delle modificazioni del suo oggetto e non ad un presente, in cui “Azione” significa l'evidenza delle modificazioni del suo oggetto. Il primo significato di “Azione” appartiene al piano astratto, poiché non si rivolge ad un'evidenza e all'immediato, ma si riferisce ad altri significati in cui consiste “Azione” senza le sue evidenze, e rimane dunque all'interno del piano della significazione, senza che della significazione si manifesti un oggetto immediatamente evidente. Il secondo significato è quello in cui consiste il pensare come pensare le evidenze del presente, ovvero un rivelarsi dell'immediato. Il soggetto A del predicato “A è B” vale dunque, per il primo significato, come svolgersi astratto dell'azione, mentre per il secondo significato, come immediata evidenza della modificazione del suo oggetto.

Assumendo A nel suo significato astratto, dell'azione non si dà effetto, di dà invece progetto dell'effetto che l'azione comporta normalmente, e con ciò si progetta l'esclusione del presente e delle sue immediate evidenze, cioè il piano in cui si fa esperienza di E. In un primo modo attraverso la simultaneità di Mst1 e di Mse2 (nella prima serie storica segnalata in questo paragrafo), che non dà tempo, cioè occasione, a Mst2 di accadere, ed in un secondo modo attraverso l'anteposizione di Mse2 ad Mse1 (sia nella prima che nella seconda serie storica segnalate in questo paragrafo), che rende ciò che accade in Mse1, cioè l'affermazione “E è B”, non più implicante “A è B”, perché ad esso posposto. La mancanza del giudizio di E Inoltre il primo effetto immediatamente evidente di A è la modificazione dell'oggetto, e dunque ciò che si è indicato con E inizia a rendersi evidente dalla detta modificazione. E è, più concretamente rispetto all'analisi operata fin'ora, una serie di effetti, il primo dei quali è la modificazione immediatamente conoscibile dell'oggetto di A. Se il pensiero che intende emettere i giudizi “A è B” e “E è B” abbandona il piano concreto a partire da quando si realizza il primo effetto appartenente alla serie E, E non si dà a quel pensiero, poiché appartiene ad un piano di concretezza da cui il pensiero si è astratto. A ciò consegue che il pensiero astratto che concepisce A senza considerare i suoi effetti, o escludendoli, se si tiene per, non può emettere il giudizio “E è B” in cui E sia la serie degli effetti di A, e nella successione storica posta, Mst2 e Mse1 non hanno luogo, e la successione storica è autocontraddittoria.

Si dà dunque, nell'intenzione di determinare B, un'unico significato di A, ovvero il secondo, che implica direttamente la posizione di E come serie e(1),...,e(n), dove n→∞, e di una storicità del suo realizzarsi. Porre E significa pensarlo, e ciò si colloca in un momento storico proprio: si può pensare E come risultato di e(1),...,e(m), essendo m il momento in cui E viene percepito. Essendo E(m) l'effetto percepito e conosciuto in un momento m, e limitato all'assunzione degli effetti percepibili fino al momento m, l'intenzione di porre E come totalità degli effetti di A e fondamento del giudizio “E è B”, anche qualora m sia più tardivo possibile, cioè coincida con Mse1, importa l'intenzione di porre E=E(m), che è contraddittorio.

Si potrebbe obiettare che la posizione di E come la totalità degli effetti intende E come progetto di questa totalità, come forma di questa totalità, ma l'utilitarismo si riferisce ad E espressamente come piacere e dolore, cioè come manifestazioni attuali dell'effetto di un'azione, per cui la natura fondamentale di E rispetto alla determinazione di B rimane contraddetta dalla attuale contingenza di E, sempre incrementabile degli effetti e(Mse1+1)...e(n).

Inoltre, tra lo svolgimento di A (Mst1) e il giudicare “A è B” (Mse2) intercorre, oltre al tempo storico del realizzarsi della serie e(1)...e(m)...e(Mse1), intercorre anche il tempo storico tra Mse1 e Mse2, poiché l'implicazione (E è B)--->(A è B) non è da ritenersi immediata. Sono infatti diverse le azioni che provocano una determinata serie di effetti, per cui l'implicazione indicata presuppone una scelta tra le azioni aventi “lo stesso effetto”.

Ogni asserto si può intendere nella sua valenza morale, individuando la volontà di giudicare bene un effetto e l'azione che lo comporta, da parte di chi lo avanza. Si consideri ad esempio l'affermazione: “le conquiste dei Romani hanno fatto la grandezza di un popolo”. Si intende qui “la grandezza di un popolo” come fatto aproblematicamente positivo, cioè manifestazione del bene. Le conquiste hanno avuto una serie di effetti, di cui si considerano qui solo quelli riguardanti i conquistatori. Si escludono quindi gli effetti iniziali di distruzione dei popoli conquistati, e si considerano solo quelli riguardanti i conquistatori, fino alla loro distruzione, un segmento dunque molto breve. Estendendo a ritroso la catena degli effetti, l'affermazione in questione implica quella “il massacro dei Cartaginesi ha fatto grande il popolo romano”, che mette in luce diversa la bontà della grandezza del popolo romano, pur appartenendo il massacro all'atto del conquistare. L'azione causante l'effetto della grandezza viene semplicemente arretrata nel tempo, rivelando suoi effetti precedenti al compiersi della conquista, e questo già basta a far apparire problematica la posizione della bontà della grandezza.

Analogamente si possono criticare le affermazioni “La concorrenza genera benessere”, o “il lavoro nobilita l'uomo”, o “la crescita economica è il bene del Paese”. Asserzioni provenienti dal pensiero liberale ed utilitarista di cui si è mostrata la contraddittorietà.


Una prima soluzione della contraddittorietà dell'implicazione I, è porre che E è il solo effetto di A, e che A si compie solo per ottenere E. Allora A ed E, pur essendo distinti, appartengono allo stemmo momento Mst1=Mst1, dell'evento P, che è l'implicazione immediata tra A ed E, e che conviene sia ad A (poiché E consegue necessariamente ad A), sia ad E (poiché A è l'unica causa possibile di E). In tal caso, l'implicazione I si sviluppa come segue:


c) P -------> [(A = B)---->(P = B) vel (E = B)----->(P = B)]

Dove le due proposizioni “E è bene” ed “A è bene” sono proposizioni sintetiche a posteriori.

Perché P sia bene, è sufficiente che A sia bene o che E sia bene, il che non delimita in alcun modo B ad A o ad E, ma lo lascia fluttuare in P = (A+E), cioè tra Mst1 e Mst2, includendo in B sia l'azione che il suo effetto, senza B doversi più scindere in B' e B''. Questa indistinzione lascia però irrisolto il caso in cui (A = B) et (E ≠ B), e quello in cui (A ≠ B) et (E = B), per cui è necessario, per mantenere l'indistinzione di B pertinente ad A e di B pertinente a E, o che si taccia l'eventuale essere E ≠ B, se A = B, e l'essere A ≠ B, se E = B, o che si subordini il male che è E o A, rispettivamente al bene che è A o E ad essi conseguenti.

Un modo comune di subordinare un male ad un bene, è quello di considerare E ≠ B un “danno collaterale”, come si sono ad esempio considerate le morti civili in Kosovo o più recentemente in Siria. La morte di innocenti viene considerata in questi casi un male molto minore del bene dell'effetto di poter affermare un potere, effetto ulteriormente mascherato da quello di ”stabilire la pace” nel Paese che si è terroristicamente bombardato decimandone la popolazione. Per nascondere ulteriormente il vantaggio che il potere trae dagli stermini, i bombardamenti teleguidati vengono così denominati “operazioni di pace”. La autocontraddittorietà di queste espressioni consegue dalla indeterminatezza in cui il bene permane nella sua concezione utilitarista, cioè secondo l'implicazione I.

Una seconda risoluzione dei casi in cui (A = B) et (E ≠ B), e di quello in cui (A ≠ B) et (E = B) sarebbe delimitare B ad E o ad A, in modo da non dover ricorrere ad una decostruzione di B in B' e B'', e quindi al permanere della sua indeterminazione, il che opposto al nostro proponimento di determinare il bene come ente. Si assuma che (E = B), e non che quindi (A = B), seppure (A = B) si collochi, come si è detto, in un momento storicamente successivo. Si aggiunga che E, effetto di A, è B, anche se A causa altri effetti ulteriori ad E, cosa che finora è rimasta irrilevante.

Ponendo, ancora, soltanto (E = B) e non (A = B), e osservando che A ed E appartengono a momenti diversi, uno causale ed uno effettuale, B appartiene solo al momento effettuale, ed A, non riguardato dalla sintesi con B, mantiene il suo essere causa di E perdendo ogni relazione con B, sia per il suo essere causa di E, sia per il suo essere causa di effetti ulteriori.

Risultato della distinzione di piani e dell'irrelazione di A e B, sono le proposizioni del tipo: “Bisogna armarsi per stare in pace”. La quale consiste nella posizione di A (armarsi) e di E (stare in pace) e della loro relazione di consequenzialità, quando la sintesi (E = B) espressa da “bisogna” (è bene stare in pace) non può considerare E come la totalità degli effetti di A, poiché le armi sono notoriamente strumenti di guerra. Gli effetti di A, ovvero gli elementi della serie e(1)...e(n) opposti all'effetto E compreso nel predicato (la pace), vengono esclusi dalle costanti di E, che quindi non è più la totalità degli effetti di A, ma solo la sua parte adeguata al predicato. Tale adeguamento è una falsificazione di E, poiché un solo e(m) appartenente alle constanti di E contraddittoriamente non comprese nell'E che compare nel predicato (pace), contraddice il predicato stesso. Esso rimane infondato, poiché un effetto che si mostri immediatamente e innegabilmente, che sia opposto a quelli su cui esso si fonda, ne comporta la negazione.


Il gioco del benessere.


Fin qui si è considerato il bene come facente parte dello stesso orizzonte ontico della causa e dell'effetto compresi nei predicati “A è B” e “E è B”, cioè esistente al pari degli enti con i quali esso è stato posto in relazione identitaria. B è, come é A e come è E, dunque B è stato assunto, anche se fin qui non dichiaratamente, come evento in conseguenza dell'identificazione con A, e come oggetto, in conseguenza dell'identificazione con E. La contraddittorietà emersa dalla disposizione di B nei detti predicati esclude tuttavia sia la natura eventuale che quella oggettuale di B, e con esse la sua possibilità di essere attualizzato e collocato nella storia. Si porrà ora l'ipotesi che B non abbia natura né eventuale, né oggettuale, bensì attributiva.

La qualificazione del bene come attributo, determinazione di A e di E, non avrebbe condotto alle contraddizioni che si sono indicate, poiché anzitutto non è contraddittorio dire di A che è buono e di E che non lo è, o di E che è buono e di A che non lo è. Ulteriore aspetto della contraddittorietà delle identità A=B e E=B emerge dal rilevare che per mantenere B nella sua natura oggettuale (E=B), si è data una considerazione parziale di E, differenziandolo dalla totalità della serie degli effetti di A, e in questa differenziazione, si è costituito un concetto astratto di E.

La pretesa di fondare un concetto concreto di B (come totalità di relazioni tra B e la totalità degli effetti della totalità delle azioni possibili) su un concetto astratto di E, cioè separato dalla totalità degli effetti, importa una permanente indeterminazione di B. La giustificazione, ad esempio, delle azioni di guerra attraverso l'indicazione di loro presunti effetti pacifici, mostra come B si ponga invero come il fondamento della limitazione o contraffazione di E. Non dunque un B conseguente alla valutazione di E e di A, come secondo la ricorrente forma giustificativa dell'implicazione I vorrebbe, ma un B generante l'implicazione stessa, e negante le sue contraddizioni. L'implicazione I viene in questo casoinvertita come segue:


I'

(B=E')----->[(A---->E')----->(A=B)]


Cioè: chiamando E' l'effetto di A limitato a priori a B, essendo E' effetto di A, allora A è B. Si chiamerà questa seconda implicazione I'.

Anche questo caso prevede che il bene venga oggettivato in un effetto, ma poiché esso effetto non si può ottenere prima che si verifichi uno stato di cose di cui si possa dire che è bene (ciò che avviene in conseguenza di una o più azioni che causino tale stato di cose) esso può essere solo deciso a priori da un soggetto particolare, cioè è il prodotto di un giudizio, che attribuisce la qualità di bene alla porzione degli effetti E' dell'azione A. Il bene risulta necessariamente essere un attributo dell'azione e dell'effetto.

Quindi da un lato il bene individuato secondo l'implicazione I rimane indeterminato e importa l'autocontraddittorietà di E, che differisce necessariamente dalla totalità degli effetti di A, dall'altro lato, il bene deciso affinché si abbia un'implicazione I', in cui E' sia esplicitamente parte interessante degli effetti di A, è arbitrario, cioè dichiaratamente infondato. B=E', implicante l'oggettivazione di B, nasconde la volontà di selezionare gli effetti di un'azione, in virtù di “concetti” di bene necessariamente condivisibili, come la pace e il piacere. La pace è bene (secondo la “legge di natura” di Hobbes), e poiché che la pace è l'effetto che riguarda la porzione di mondo che ottiene dalla guerra il proprio benessere, allora questa porzione di mondo giudica bene anche la guerra. Tale giudizio, motivato dall'immediatezza della bontà del benessere, inteso come godibilità dei beni, piacere, inesorabilità della legge di natura hobbesiana, è tautologia, poiché la pace si pone già da sé come bene e il benessere è già bene. La limitazione degli effetti alla parte interessante E', la natura attributiva del bene e l'innegabilità della tautologia “il benessere è bene” giustificano l'implicazione I', contraddittoria per due aspetti: perché rimane accanto all'arbitrarietà della limitazione di E a E', e perché importa i giudizi “E' è B” e “A è B” dove E' (pace) è negazione di A (guerra).

L'implicazione I' è la forma del predicato morale occidentale; è propria del soggetto dominante, cioè di colui che si pone al di sopra, che persegue contemporaneamente la via del benessere e quella della contraddizione doppiamente articolata di cui sopra. La costituzione del soggetto dominante è dunque essenzialmente autocontraddittoria.




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